Crescita, riforme e fiducia europea: ecco su cosa si basa la scommessa di Draghi sul «debito buono»
Il governo ha approvato il Documento di economia e finanza (Def) e la relazione sullo scostamento di bilancio, con cui si richiede un maggiore indebitamento per 40 miliardi di euro. Il volume del debito pubblico quest’anno segnerà il record storico. Quest’anno infatti il rapporto si impennerà fino al 159,8% del Pil, superando di poco il picco raggiunto nel 1920 durante il primo dopoguerra. La pandemia ha travolto la terza economia dell’eurozona mettendone a nudo la fragilità. Il premier Mario Draghi ne è ben consapevole. «L’Italia fa una scommessa sul debito buono», ha detto in conferenza stampa. «Se la crescita sarà quella che ci attendiamo da tutti i provvedimenti, dal piano di investimento, dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), dalle riforme, pensiamo che non servirà una manovra correttiva negli anni a venire».
Palazzo Chigi punta a una traiettoria di rientro, nel Def il rapporto deficit/Pil del 2021 è stimato all’11,8% (in crescita rispetto all 9,5% del 2020), un valore che dovrà scendere al 5,9% nel 2022; al 4,3% nel 2023; e al 3,4% nel 2024. Secondo gli obiettivi, dal 2025 il rapporto deficit/Pil tornerà sotto il 3% riportando il Paese in un percorso di convergenza verso i parametri del Patto di stabilità e crescita (Psc) dell’Unione europea, attualmente sospeso ma tutt’altro che decaduto.
I parametri del Psc prevedono che ogni Stato membro raggiunga l’equilibrio di bilancio attestandosi su un rapporto deficit/Pil non superiore al 3% e un rapporto debito/Pil al di sotto del 60%. La convergenza verso questi obiettivi «si prefigge di garantire che la disciplina di bilancio dei paesi dell’Ue continui a essere tale prima e dopo l’introduzione della moneta unica», ed è ormai parte integrante del semestre europeo, il meccanismo di coordinamento che caratterizza le politiche economiche degli Stati membri.
Ridurre la crescita del debito con la crescita economica
Parlando del Pnrr, il premier ha specificato che «il punto è riuscire a produrre la crescita, quello è il criterio per uscire dall’alto debito. Il rapporto debito/Pil giudicato con gli occhi di ieri sarebbe molto preoccupante – ha detto –, ma gli occhi di oggi sono molto diversi. Nessuno nelle conversazioni fatte (con gli altri leader, ndr) ha posto eventualità del ritorno alle regole come erano, è una discussione complessa che durerà tutto il prossimo anno, gli altri Paesi sono in condizioni non dissimili, c’è un impegno serio verso una decrescita del rapporto debito/pil senza compromettere la crescita».
Tuttavia, in queste parole si nascondono i timori per la diversa percezione del Next Generation EU all’interno dell’Unione. Dopo la crisi che ha obbligato Spagna, Portogallo e Grecia ai dolorosi piani di aggiustamento macroeconomico, le economie del Nord e del Sud erano – se pur strutturalmente diverse – molto più convergenti di quanto non lo fossero mai state nei vent’anni precedenti. Nonostante il divario Nord-Sud, i Paesi erano entrati in un percorso di convergenza verso i parametri del Psc e raggiungerli era, almeno idealmente, solo una questione di tempo.
I fragili equilibri dell’eurozona
La pandemia ha stravolto di nuovo qui delicati equilibri, innescando una resa dei conti che ridefinirà l’architettura e i rapporti di forza dell’Ue. Le spese dell’emergenza hanno obbligato i Paesi a spendere senza limiti e sforare i parametri, ma ciò è possibile solo grazie alle politiche straordinarie della Bce, a loro volta possibile grazie alla garanzia dei Paesi nordici. Inoltre, il meccanismo di indebitamento comune per finanziare il Recovery Fund ha le caratteristiche di un primo passo verso la creazione dei cosiddetti Eurobond, la proposta di uno strumento permanente per l’indebitamento comune la cui solvibilità sarebbe garantita congiuntamente dagli Stati membri. Draghi ne è da tempo un promotore.
Ma quello che per una parte dei Paesi europei (meridionali, mediterranei) è un orizzonte da raggiungere per risolvere i problemi strutturali, per l’altra (nordici, frugali, teutonici) è una minaccia da scongiurare, un sistema che obbligherebbe i propri contribuenti a pagare per gli altri, per sempre, come l’unione fiscale di uno Stato nazionale. Basti pensare che in Italia il Recovery Fund è stato presentato come vantaggioso perché ha poche condizioni, mentre nei Paesi frugali viene raccontato quasi come un male necessario, giustificabile solo perché vincola i fondi a controlli e riforme. Lingue e racconti diversi, e le differenze non si fermano qui.
La crisi pandemica non ha colpito tutti allo stesso modo
Dal punto di vista sanitario la pandemia è stata devastante per tutti, ma sul piano della finanza pubblica la capacità di affrontarla presenta la solita asimmetria Nord-Sud. Durante la pandemia il rapporto debito/Pil è arrivato al 200% in Grecia, al 121% in Spagna, al 118% Francia e come abbiamo visto, quasi al 160% in Italia. Lo stesso valore in Germania è stimato al 72% e si prevede che il deficit torni sotto il 3% prima del 2023. I numeri dei Paesi frugali sono ancora migliori, in particolare quelli olandesi che con il debito/pil al 61% già da quest’anno sono pronti a rientrare nei parametri del Patto di stabilità.
Inoltre, vista la difficoltà nel richiedere i fondi del Ngeu e il potere di controllo che viene dato alla Commissione una volta che si inizia a riceverli, in Olanda c’è chi si chiede se non sia meglio che il gruppo dei Paesi economicamente più forti (compresa la Germania) non li chieda affatto. Sarebbe una decisione drastica, che sancirebbe la differenza tra i Paesi forti e quelli più deboli. Come avviene tra le persone, anche tra Stati nazionali le crisi non colpiscono tutti allo stesso modo, e durante le crisi differenze emergono con più forza. Differenze che la difficoltà nel finanziare la prima tranche del Recovery Fund potrebbe mettere in luce prima del previsto.
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