Sanità territoriale, governance e riforme mirate: i nodi del Recovery Plan italiano che scioglierà (solo) Bruxelles
Stamattina alle 10 il premier Mario Draghi avrà un nuovo incontro incontro a Palazzo Chigi per fare il punto sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Alla riunione è prevista la partecipazione dei ministri più strettamente coinvolti nella stesura del piano, come il titolare del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef), Daniele Franco, il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, il ministro per l’Innovazione e la Transizione digitale Vittorio Colao, fino al ministro per i Trasporti e le Infrastrutture, Enrico Giovannini. Domani o al massimo venerdì (più probabile) il Pnrr sarà portato in Consiglio dei ministri. Lunedì 26 e martedì 27 il premier presenterà il documento alle camere.
Venerdì prossimo, il 30 aprile, il Recovery Plan italiano dovrebbe essere inviato a Bruxelles, rispettando così la scadenza prevista. Dal momento della consegna, la Commissione europea avrà fino a due mesi di tempo per valutarlo, negoziare alcune modifiche e dare la sua approvazione, dopodiché toccherà al Consiglio Europeo, che avrà un altro mese. Finito questo processo, il Pnrr sarà pressoché immodificabile e da quel momento inizierà l’attuazione con i relativi controlli negli anni successivi.
A luglio è prevista la prima tranche di risorse, pari al 13% del totale del Recovery Fund, anche se ci sono dei dubbi sulla possibilità che l’Unione europea riesca a finanziarsi a sufficienza per erogare entro luglio tutta la somma a tutti gli Stati membri. Come ha detto ai partiti e alle parti sociali, per Draghi l’imperativo è fare presto, ma soprattutto fare bene. Anche per la Commissione la qualità è più importante rispetto alla tempistica.
Risorse e obiettivi che vanno oltre le abituali capacità italiane di investimento
Dal punto di vista delle risorse il Pnrr è stato definito nel Documento di economia e finanza (Def). In totale si tratta di 221,5 miliardi di euro, con i 69 miliardi in sovvenzioni e 122 miliardi di prestiti previsti dal Recovery Fund, più 30 miliardi di fondi aggiuntivi da finanziare a deficit, senza risorse Ue, che serviranno a coprire i costi dei progetti che non riusciranno a trovare spazio nel Pnrr. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), dall’analisi del Def le risorse finalizzate a progetti aggiuntivi nell’ambito di Next Generation EU aumentano in maniera “rilevante”.
Rispetto alla versione del Pnrr presentata dal precedente governo «nel periodo 2021-26 il complesso delle risorse aggiuntive del ‘Pnrr allargato’ – ovvero, il piano di interventi comprensivo delle risorse nazionali che andranno a integrare quelle del Ngeu – indicato dal Def ammonta a 168,9 miliardi, risultando più elevato di 46,5 miliardi rispetto alla proposta di gennaio scorso». Obiettivi di spesa che vanno oltre le abituali capacità italiane, per tempistica (va fatto tutto in pochi anni) e pianificazione (cronoprogramma dettagliato e obiettivi da valutare ogni sei mesi).
Tre pilastri e sei missioni
La fase dell’attuazione sarà fondata su tre pilastri. Il primo è la semplificazione delle norme, dei tempi politici, del processo istituzionale. Il secondo sono le riforme. Il terzo, la trasparenza, che sicuramente non è stata tra le caratteristiche che hanno distinto la stesura del piano. Le sei missioni del Pnrr sono: digitalizzazione, innovazione e competitività; rivoluzione verde e transizione ecologica; infrastrutture per la mobilità; istruzione, formazione, ricerca e cultura; equità sociale, di genere e territoriale; salute.
Proprio sulla Sanità, arriva una prima doccia fredda. Nella conferenza Stato-Regioni, sembra che l’unica cosa emersa sul Recovery Plan è che le Case della Salute, un progetto per rilanciare la Sanità territoriale che sembrava essere tra i capisaldi del Pnrr, non saranno finanziata con i fondi del Recovery Fund. Probabilmente le sorprese non si limiteranno a questo, nelle pagine del Pnrr si troveranno molte scelte sgradite o comunque diverse rispetto alle aspettative, cose che non piaceranno ad alcuni partiti, alle parti sociali, alle categorie e a chi si aspettava una risposta diversa.
Il nodo della governance
Tra i nodi da sciogliere resta quello della governance. La regia del Recovery Plan sarà a Palazzo Chigi ma il potere di esecuzione e controllo sarà centrato sulle strutture che fanno capo al Mef, studiate per mettere in sicurezza l’attuazione del Recovery Plan lungo tutto il periodo 2021-2026. Anche quando a portarlo avanti saranno i governi che prenderanno il posto del governo Draghi. Intanto però, si continua a ragionare, perché anche in questo rush finale di pochi giorni il cantiere del Pnrr è ancora aperto.
Le informazioni non circolano, ma dalle poche fonti ministeriali (gli unici a occuparsene) sono numerosi i capitoli ancora “in movimento”. Tra gli ambienti della maggioranza si discute, ed è forte il pressing dei ministri per partecipare a più tavoli possibili, dire la propria, lasciare un segno sul Pnrr. A poter cambiare ancora è a composizione dei progetti, ma soprattutto, si sta dando un forte accento alle riforme “mirate”, come sottolineato dal sottosegretario agli Affari europei, Vincenzo Amendola.
Il nodo di quello che potremmo definire il negoziato tra Draghi e la politica infatti è proprio questo. Draghi è arrivato a Palazzo Chigi per chiudere il Recovery Plan, e lo ha fatto affidando il lavoro al suo cerchio ristretto di ministri tecnici, scelti da lui, che rispondono a lui e sono indipendenti dai partiti, lasciando poco spazio a tutti gli altri. In altri paesi lo sviluppo del piano di rilancio è stato vissuto in maniera più aperta, con un dibattito parlamentare, in alcuni casi (come in Portogallo) molto allargato.
Ma una volta che il documento sarà stato inviato a Bruxelles, il negoziato sarà un affare tra le Capitali e la Commissione, tra Roma e Bruxelles, tra i ministri di Draghi e i funzionari europei. Ai partiti molte cose non piaceranno, ma non ci sarà molto tempo per discuterle. Dopo il 26 e il 27 aprile resteranno solo tre giorni prima della consegna, non ci saranno modifiche da concordare con il parlamento. Ecco perché l’Italia rispetterà la scadenza anche inviando alla Commissione un Recovery Plan con alcuni punti ancora da discutere.
La scommessa di Draghi va oltre il suo mandato
Il rapporto del 160% debito/Pil raggiunto quest’anno dall’Italia è uguale a quello che nel 2015 portò la Grecia vicino al default. La differenza è che in Italia il debito è sostenibile, ma per renderlo tale è necessario crescere, e mantenere basso il suo livello di finanziamento – ora è possibile grazie alle politiche straordinarie della Bce. In altre parole, le cose sono proprio come le ha descritte Draghi: l’Italia deve ridurre il debito con la crescita, e avviare il rapporto debito/Pil verso un percorso di graduale discesa.
Come osservato anche dalla Corte dei conti, se la sfida implicita nel Def è quella di finanziare gli incrementi di spesa attraverso una maggiore crescita, si dovrà fare il possibile, non appena le condizioni lo consentiranno, per affiancare all’espansione della spesa buona anche il contenimento di quella cattiva, altrimenti, il famoso «debito buono» sarà sopraffatto da quello cattivo.
«certamente il Recovery Plan rappresenta un’opportunità unica per effettuare investimenti che aumentino il potenziale di crescita del Paese; ma per raggiungere tale obiettivo sarà necessario non rinviare ancora una volta la stagione delle riforme da tempo sollecitate dagli osservatori internazionali», Riforme, quelle riforme di cui si parla da decenni, ma che dividono e non portano consenso. Dopo la presentazione del Pnrr ci saranno molte cose da chiarire tra chi governa, chi sostiene il governo, e chi governerà domani.
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