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Coprifuoco sì o no? Il punto di vista della psicologia: «Associare il Covid alla guerra ha aumentato la percezione del rischio. Ma l’effetto sta finendo»

28 Aprile 2021 - 10:45 Maria Pia Mazza
Enrico Rubaltelli, professore associato di Psicologia all’Università di Padova, parla dell'effetto deterrente della misura oggetto di un acceso dibattito politico

Riaperture sì, riaperture no. Coprifuoco sì, coprifuoco no. Un dibattito sempre più polarizzato che vede protagonisti politici, scienziati e altri decisori. Il governo Draghi ha stabilito che a maggio aggiornerà i parametri delle riaperture dell’ultimo decreto Covid «rivedendo anche i limiti temporali di lavoro e spostamento». Tradotto: la proroga oltre le ore 22 del coprifuoco. La scienza è stata chiara: al momento, non esistono specifici dati scientifici applicabili universalmente su questo punto. Di conseguenza, la scelta è politica. La misura argina pragmaticamente la possibilità di contatto tra le persone, ed evita dunque possibili contagi da Coronavirus. Psicologicamente, poi, potrebbe avere un effetto deterrente. 

Del resto la pandemia non è finita, malgrado le curve si stiano lentamente flettendo. E a fronte di queste polarizzazioni, la componente del rischio percepito individualmente svolge un ruolo importante nelle riaperture in una situazione di incertezza. Del resto, «dovremo cercare di ricostruire progressivamente tutto, tenendo sempre conto che le cose fondamentali della nostra vita, piano piano, torneranno a essere quelle che erano», come spiegato a Open dal professore Enrico Rubaltelli, professore associato di Psicologia all’Università di Padova, esperto di psicologia della decisione, economia comportamentale e percezione del rischio. 

Professor Rubaltelli, cos’è la percezione del rischio? 

«Il rischio è soggettivo e questa percezione cambia nel tempo, così come sulla base delle esperienze di ciascuno, e cambia ancora con il protrarsi della crisi. All’interno di questa situazione generale, che è guidata da quella che tecnicamente viene definita “euristica dell’affetto”, quando le persone percepiscono un rischio avvertono una situazione poco utile o benefica per la loro vita. Quando invece la percepiscono come utile la sentono come meno rischiosa. In molte situazioni però i rischi e benefici sono legati tra di loro».

Come si riflette questo elemento in un contesto pandemico?

«Una persona potrebbe dire che la pandemia è rischiosa e non esistono benefici. Ma le varie misure di contenimento hanno funzionato, il che è benefico. Le chiusure possono essere percepite come molto utili da chi ha una percezione del rischio alta. Allo stesso tempo, invece, chi ha una percezione del rischio molto bassa ridimensionerà la situazione, allentando le misure individuali».

Come si pone in quest’ottica la misura del coprifuoco? 

«Ricopre un ruolo molto importante. Dal punto di vista pratico se le persone non escono ovviamente i contagi diminuiscono. Ma a livello psicologico, il “coprifuoco” è un termine associato a una situazione di guerra. Quindi quando io impongo un “coprifuoco” significa che sta succedendo qualcosa che va oltre la situazione normale».

Si può associare la deterrenza psicologica al coprifuoco? 

«Quando è stato introdotto ha avuto sicuramente un effetto deterrente, trasmettendo alle persone l’informazione: “Le cose si stanno mettendo male e dobbiamo arginare la situazione” e ha aumentato la percezione del rischio e quindi l’utilità delle misure che riducono la possibilità di contagiarsi. Adesso come adesso io non so se il coprifuoco abbia ancora questo ruolo. Certo, il fatto che ci sia, che se ne parli, fa sì che funga come ricordo che la pandemia non è finita».

Sul fronte specificamente psicologico, cambierebbe qualcosa spostarlo? 

«Molte persone si sono abituate al coprifuoco e lo rispetterebbero comunque, a prescindere dalla percezione del rischio. Altri invece potrebbero non sentirsi più così spaventati dalla pandemia. Se parliamo di variazioni d’orario, semmai, in caso di forte aumento dei contagi troverebbe più fondatezza “anticiparlo”, per esempio, alle 21. Questo perché una scelta del genere indicherebbe che il rischio è aumentato, e di conseguenza la misura diventa più stringente».

Come si intersecano invece le riaperture e la percezione del rischio?

«Guardando alle riaperture, l’anno scorso abbiamo visto che sono combaciate con una riduzione della percezione del rischio. L’estate scorsa abbiamo rilevato che la percezione del rischio rispetto all’inizio del lockdown era diminuita, posto che erano diminuiti notevolmente i numeri dei casi e dei decessi. Tuttavia, la percezione del rischio non era tornata sotto la soglia del pre-lockdown, quindi le persone hanno continuato ad adottare misure anti-contagio anche durante l’estate. Dopo un anno da molti le riaperture vengono viste come un segno di speranza di poter riprendere il controllo della situazione e della propria vita».

Sempre rimanendo nella sfera psicologica, cos’è cambiato in quest’anno?

«Quest’ultimo anno è stato più duro rispetto al primo lockdown. Se il primo è arrivato all’improvviso e le misure sono state chiare e limitate per un certo periodo di tempo, dopo l’estate tra variazione dei colori delle Regioni, incertezza sulle riaperture scolastiche, sistemi misti di lavoro, l’arrivo di vaccini e i vari impasse nella campagna vaccinale, le persone sentono sempre più l’esigenza di tornare ad avere controllo della propria vita. Non metto in dubbio le scelte di contenimento adottate, ovviamente, perché i dati confermano che funzionano. Sicuramente sul fronte psicologico però ci sono state ripercussioni, anche alla luce del continuo adattamento individuale necessario per far fronte a situazioni e circostanze che sono cambiate e cambiano continuamente».

Con queste riaperture potrebbero verificarsi condizioni come il timore da rientro a scuola o nei luoghi di lavoro, o la paura di prendere i mezzi pubblici? 

«L’essere umano è incline a compiere scelte sulla base dell’esperienza. Se abbiamo esperienza di qualcosa ci troviamo più a nostro agio nel riprenderla o a ripeterla. Con la pandemia l’esperienza ci manca. Nessuno si è trovato a dover uscire da una situazione come questa. C’è chi non vede l’ora e si butta, e c’è chi tentennerà di più nel riprendere in mano la quotidianità.

A ciò si aggiunge che il nostro cervello intuitivo è molto bravo a fare associazioni, quindi una persona spaventata farà associazioni in cui vedrà tutti gli aspetti negativi delle situazioni a cui va incontro. E queste associazioni finiscono per prevalere e la paura continua ad autoalimentarsi fino a quando non si trova il coraggio di fare una prova per superarla, compatibilmente con le misure di contenimento in atto. Al contrario, chi fa associazioni eccessivamente positive è portato a sottostimare il rischio e a “esagerare”».

Sarà possibile superare la polarizzazione e a razionalizzare il tutto?

«Non riusciamo a discuterne gli uni con gli altri, perché ciascuno ha una percezione del rischio e una visione del mondo differente. Il che potrebbe portare anche a qualche scontro sociale. Questo è uno dei motivi per cui i governi devono spiegare per bene perché fanno certe scelte. Questo permetterebbe di creare almeno quella fiducia nelle istituzioni che può influenzare anche le associazioni che vengono fatte. La spiegazione non è semplice, non sempre va di pari passo con l’intuizione. Non è facile».

A livello di rapporti umani potrebbero insorgere difficoltà nel relazionarsi con gli altri?

«Anche in questo caso dipende dalla percezione del rischio. Se una persona è sotto stress, o percepisce incertezza nell’ambiente circostante, magari tenderà a chiudersi nella sua bolla di familiari o amici, o in se stesso. Verso gli altri potrebbe attivare delle reazioni più rudi, fidarsi di meno. A ciò si aggiunge una sorta di affaticamento mentale nel dover seguire le regole che cambiano continuamente, seppur queste siano corrette sul fronte scientifico».

«Alcune esistono da molto tempo e son diventate pratica abituale, tipo indossare la mascherina. Ma altre vanno ad alimentare la cosiddetta Covid fatigue. Quando siamo affaticati i nostri comportamenti non sempre coincidono con quelli che vorremmo che fossero, quindi monitoriamo meno le nostri azioni e reazioni. Certamente le relazioni potranno essere un po’ influenzate anche da questo».

Quali strumenti individuali, sociali e politici sono a disposizione per poter ritrovare un equilibrio in queste riaperture? 

«È fondamentale che i governi forniscano spiegazioni alla base delle loro decisioni. A livello sociale bisognerebbe avere rispetto del prossimo e limare il più possibile gli spigoli dei rapporti, tenendo conto del fatto che ciascuno può avere delle percezioni del rischio diverse dalle nostre. A livello individuale, se si hanno paure per le riaperture, sarà necessario fare le cose un po’ alla volta, in maniera progressiva, osservando l’andamento dei dati, aspettando di avere informazioni su cui razionalizzare i propri timori. Bisogna però sempre tenere conto del fatto che i nostri ragionamenti sono influenzati da queste associazioni intuitive che facciamo. Dovremo cercare di ricostruire progressivamente tutto, tenendo sempre conto che le cose fondamentali della nostra vita, piano piano, torneranno a essere quelle che erano».

Foto in copertina: ANSA/GIUSEPPE LAMI

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