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Nel Recovery plan un miliardo di euro per lo sport. La candidata al Coni Bellutti: «Priorità alle scuole: servono più ore e personale qualificato» – L’intervista

La ricetta dell'ex ciclista, due volte medaglia d'oro olimpica, per rilanciare lo sport in Italia: «Deve essere considerato bene primario. Con la pandemia l'offerta ai bambini s'è quasi azzerata». Bellutti è candidata alla guida del Coni, assieme al presidente uscente Giovanni Malagò e l'altro sfidante, Renato di Rocco

Ci sarà anche lo sport nel Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza del governo Draghi. «L’Italia da anni reclamava un piano sulle politiche sportive. Con un miliardo di investimenti nel Pnrr da oggi lo sport ha piena dignità nelle politiche pubbliche del nostro Paese», ha dichiarato Mario Draghi. Il premier ha annunciato che l’investimento di un miliardo andrà a potenziare uno dei settori più colpiti dalla pandemia, rafforzando strutture sportive per i giovani, palestre, e attrezzature per le scuole. In particolare, saranno le strutture scolastiche a beneficiare dei fondi destinati allo sport e che arrivano dal Recovery Fund. Investimenti che, Draghi è sicuro, gioveranno all’intera comunità territoriale. «È proprio dalle scuole che dobbiamo ripartire. Vanno aumentate le ore di educazione fisica per portarle in linea con la media europea», commenta a Open Antonella Bellutti. L’ex ciclista, due volte medaglia d’oro olimpica, prima ad Atlanta e poi a Sidney, è tra i tre candidati, insieme a Renato di Rocco e Giovanni Malagò, alla presidenza del Coni.

AFP/PEDRO UGARTE | La ciclista Antonella Bellutti sul podio di Sydney 2000 con la medaglia d’oro.

Un miliardo di euro da investire nello sport. Che cosa serve davvero?

«La priorità è assolutamente la scuola. Oltre ad aumentare le ore di educazione fisica, va assunto più personale qualificato, laureato in scienze motorie e che abbia una preparazione solida. Soprattutto nelle scuole primarie e medie, stiamo parlando di fasce d’età dove lo sviluppo delle abilità motorie è fondamentale. Mi auguro che questo investimento faccia diventare lo sport un bene primario. Sappiamo ormai quale sia la correlazione fortissima tra l’attività fisica, la salute e la coesione sociale».

La pandemia ha cambiato le urgenze?

«Sicuramente va dato sostegno alle associazioni sportive. Già in tempi normali l’offerta sportiva per i bambini è quasi assente. In questi mesi si è completamente azzerata».

C’è il rischio però, che come per tutti i grandi investimenti i soldi siano spesi male.

«Può succedere nel momento in cui nel piano non siano presenti macro obiettivi. Vanno fatte verifiche periodiche, e vanno usati indicatori di efficacia. Sicuramente, il Recovery dovrebbe porsi come obiettivo in ambito sportivo anche quello di verificare quale sarà l’effetto di questi investimenti sulla parità di genere, un aspetto sempre critico».

Non si può parlare di sport solo in tempi emergenziali. Come si esce da questa visione?

«Bisogna lavorare per avere una cultura che metta anche lo sport al centro. Deve essere trattato come un elemento indispensabile della società affinché possa entrare nella vita di tutti. E per fare questo deve essere presente nella scuola. È la sinergia tra le istituzioni scolastiche e l’associazionismo che può permettere di far crescere talenti che possano intraprendere un percorso sportivo. Non si può continuare a vedere lo sport di alto livello distaccato dagli altri contesti. Così non si ha un bacino da cui attingere, non si dà ai talenti il tempo di crescere e di maturare».

Ma come si incoraggia la pratica sportiva?

«Partendo da questo investimento annunciato da Draghi, vanno sostenuti gli enti territoriali affinché ci sia la possibilità di avere degli spazi non istituzionalizzati per fare sport a costo zero. Vanno predisposti buoni, detrazioni, e incentivi per aiutare le famiglie. Ostacoli che potrebbero essere parzialmente risolti se lo sport entrasse nella scuola».

Qual è quindi il ruolo del Coni nel fare questo?

«Va innanzitutto riconosciuta la professionalizzazione del lavoro dello sportivo. Su questo siamo tristemente in ritardo, e il caso di Lara Lugli ce l’ha tristemente ricordato. Le federazioni, nonostante sia giusto che inizialmente ci sia un sostegno pubblico, devono essere autonome. Dev’essergli dato il diritto alla visibilità sulle reti pubbliche. Una visibilità che ad oggi è totalmente assente e che impedisce agli sponsor di avere un ruolo in tutte le discipline. Va inoltre trovato un modo per conciliare una doppia carriera, sia quella sportiva che universitaria».

Come?

«All’interno delle università non c’è mai stata la possibilità di aprirsi in maniera più propositiva verso lo sport. Le prospettive di una doppia carriera fanno fatica a decollare. In Italia si lascia la discrezionalità ai singoli atenei senza linee guida nazionali. E poi va tenuto in considerazione che i gruppi sportivi militari continuano a ricevere grande attenzione. Ormai li trattiamo come l’unica soluzione al problema, e questo fa sì che 26 delle 28 medaglie arrivate da sport individuali nell’ultima Olimpiade di Rio provenivano da atleti di gruppi sportivi militari. È chiaro che cosi non è sostenibile».

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