La Convenzione di Istanbul compie 10 anni. Dallo strappo della Turchia al ritardo inglese, tutelare le donne è più difficile
La violenza sulle donne è una questione politica, non privata. Si potrebbe riassumere così il manifesto della Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale contro gli abusi sessuali, domestici e di genere firmato nel 2011 in Turchia. A oggi, sono 34 i Paesi che l’hanno ratificata e 12 gli Stati che l’hanno solo firmata. Tra adesioni, tentennamenti e passi indietro, gli effetti della Convenzione nei 10 anni appena trascorsi sono stati visibili in diverse parti del mondo. La Finlandia, l’Albania, la Serbia e il Montenegro, ad esempio, hanno istituito linee telefoniche gratuite di aiuto nel periodo coincidente con l’entrata in vigore del trattato. Nel corso degli anni, inoltre, Paesi come l’Islanda, la Svezia, la Grecia, la Croazia, Malta e la Danimarca hanno rivisto la definizione di «stupro» nel loro sistema giuridico nella forma richiesta dalla Convenzione – basandola, cioè, sull’assenza di consenso nel rapporto sessuale e non più sull’uso della forza da parte dell’aggressore (che caricava la vittima dell’onere di dimostrare di aver opposto resistenza).
Quali obblighi introduce per gli Stati
L’obiettivo dichiarato è quello di creare «il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante» per proteggere le donne da qualsiasi forma di violenza e perseguire i trasgressori. Oltre ad assumere una valenza simbolica di impegno aldilà dei confini, la Convenzione obbliga gli Stati che la ratificano ad applicare concretamente alcune disposizioni. Tra le più importanti ci sono la creazione di un numero adeguato di rifugi per le vittime di violenza domestica e di centri di aiuto per le vittime di abusi sessuali, l’istituzione di linee telefoniche di aiuto gratuite e attive 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e la garanzia di un aiuto psicologico e medico per le survivor. Ma non solo: la Convenzione pone l’attenzione su rifugiate e migranti che subiscono abusi e che non sono nelle condizioni economiche per fuggire, chiedendo ai Paesi di garantirgli alloggi indipendenti.
Il passo indietro della Turchia
Comprendere perché un Paese dovrebbe tirarsi indietro da una convenzione con obiettivi così dichiaratamente virtuosi potrebbe non essere immediato. Eppure è successo. Dopo i fatti della Polonia, dove il parlamento ha chiesto al Presidente di ritirarsi e di creare invece una «Convenzione dei diritti della famiglia», a fare un passo indietro è stato anche il Paese che per primo l’ha ratificato: la Turchia. Nove anni dopo la firma, il presidente Recep Tayyip Erdogan (che nel 2012 era primo ministro) ha annunciato il ritiro dalla Convenzione con un decreto presidenziale, che sarà effettivo a partire dal 1 luglio 2021.
La decisione ha fatto esplodere le proteste delle attiviste nel Paese, che sono scese in piazza al grido di «Non potrete cancellare in una notte anni di lotte». La motivazione ufficiale fornita dal governo – dettata dalla necessità politica di Erdogan di ingraziarsi l’elettorato (e gli alleati geopolitici) più conservatore – è che la Convenzione «è stata pensata per normalizzare l’omosessualità, obiettivo che risulta incompatibile con i valori sociali e familiari della Turchia».
Gender, la parola della discordia (che in Italia fa discutere anche sul ddl Zan)
L’obiezione di Erdogan deriva da una definizione interna al Trattato, la stessa che in Italia sta alimentando discussioni attorno al ddl Zan: il gender. Non è la prima volta che il termine “genere” appare in uno strumento giuridico internazionale, ma le difficoltà legate alla sua distinzione dal termine “sesso” sono state talvolta usate per «fomentare le controversie sulla convenzione e le sue implicazioni», come spiega in un documento divulgativo lo stesso Consiglio d’Europa. Nel testo, il “genere” è diverso dal “sesso” e indica «i ruoli, i comportamenti, le attività e le attribuzioni socialmente costruiti che una data società considera appropriati per le donne e gli uomini». Come spiega il Consiglio, alcune ricerche hanno mostrato che alcuni ruoli o stereotipi di genere «contribuiscono a rendere accettabile la violenza contro le donne».
La Convenzione di Istanbul si impegna dunque a vietare la discriminazione fondata sull’identità di genere (che non coincide, appunto, con il sesso) e l’orientamento sessuale, con l’obiettivo di «garantire protezione e aiuto a tutte le vittime di violenza, a prescindere dalle loro caratteristiche». Alla luce di questo impegno, inserire il divieto di discriminazione fondato sul genere significa, ad esempio, garantire anche alle persone transgender «di avvalersi del sostegno e della protezione di fronte ad un rischio di violenza domestica, di aggressione sessuale, di stupro o di matrimonio forzato». Lo stesso identico principio vale per le donne impegnate in relazioni non eterosessuali (quindi lesbiche, bisessuali, non-binary, transgender, etc), cosicché chiunque abbia necessità di accedere ai rifugi non si senta escluso. Allo stesso modo, la Convenzione si rivolge agli uomini omosessuali vittime di violenza domestica.
A che punto siamo in Italia
Mentre la Turchia sceglie di andarsene, gli Stati che restano si impegnano a mantenere delle promesse. A monitorare le azioni dei singoli stati che hanno ratificato la convinzione c’è un organo specifico e indipendente (disciplinato dall’articolo 66 della Convenzione): il Grevio, composto da un gruppo di esperte sulla violenza contro le donne del Consiglio d’Europa. Nel gennaio 2020 – cioè prima che la pandemia da Coronavirus evidenziasse le mancanze del sistema – il Grevio ha pubblicato un rapporto sull’Italia in cui venivano messe in luce alcune mancanze e venivano avanzati alcuni suggerimenti. Nel documento si legge che l’organo «incoraggia vivamente» le autorità italiane a fare di più per donne appartenenti a gruppi esposti a discriminazioni: per donne disabili oppure appartenenti alla comunità Lgbtq+, ma anche per donne rifugiate, migranti, nomadi (Sinti e Rom su tutte), sex worker e donne tossicodipendenti.
Il primo consiglio del Grevio è quello di consentire loro l’accesso ai servizi di supporto, aiutandole anche a capire a chi possono rivolgersi. Ma anche agevolando le procedure per richiedere un permesso di soggiorno, facilitando l’accesso a strutture di accoglienza e di alloggio e servizi di supporto sensibili alle specificità di genere. Più in generale, i problemi messi in evidenza dalle associazioni italiane che si occupano di vittime di violenza riguardano la gestione dei fondi. Per quanto riguarda le case rifugio e i centri antiviolenza, nel rapporto Tra retorica e realtà pubblicato dall’ong Action Aid (che raccoglie i dati fino al 15 ottobre 2020), è messo in evidenza come solo 5 Regioni abbiano erogato i fondi messi a disposizione dallo Stato nel 2019, ovvero Abruzzo, Friuli Venezia-Giulia, Lombardia, Molise e Veneto.
In totale, è stato liquidato solo l’11% dei 20 milioni stanziati per le strutture e l’8% dei 10 milioni stanziati per altre attività. Un fallimento che si reitera nel tempo: nel 2018 erano stati stanziati quasi 20 milioni di euro per il potenziamento della rete di strutture antiviolenza, ma a fine 2020 (al momento della chiusura del report) le Regioni avevano liquidato solo il 39% delle risorse. Per quanto riguarda i fondi del 2017, a ottobre 2020 solo 8,3 milioni su 12,4 sono stati liquidati (circa il 67%).
Il cattivo esempio del Regno Unito
In definitiva, l’importante battaglia culturale della Convenzione rischia di arenarsi non solo nei Paesi più “conservatori” (come, appunto, Polonia, Turchia, Ungheria), ma anche negli Stati idealmente più avanzati in materia di diritti civili. Il caso più eclatante è forse quello del Regno Unito che, otto anni dopo aver firmato la Convenzione, ancora non l’ha ratificata. Il ritardo è stato definito dalla Commissione per gli accordi internazionali della Camera dei Lord «preoccupante», e rischia tra le altre cose di «mettere in imbarazzo il Paese», come ha dichiarato la deputata liberale Baroness Ludford. Le aree critiche – che non sono conformi alla Convenzione – sono due: manca una legge contro la violenza psicologica (solo in Irlanda del Nord) e non è ancora stata definita una procedura di supporto per le vittime rifugiate o migranti. Proprio quest’ultimo punto sta creando più difficoltà, e potrebbe allungare le tempistiche fino al 2023.
Immagine di copertina: EPA/ERDEM SAHIN
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