Il tramonto del clubbing: «La pandemia ci ha unito, ma a rialzarci saremo in pochi» – L’inchiesta
Tra quelli che restano fuori dal nuovo giro di aperture ci sono i clubber. Sono gli amanti della musica elettronica – techno, dance, electro-dub, house, electro house, dubstep – portatori di una lunga tradizione che li accompagna da anni: riunirsi nei club, ambienti di nicchia, ma certamente alternativi e un po’ underground. Col tempo il concetto di club si è esteso però a realtà più grandi, includendo locali a volte giganteschi e abbracciando generi commerciali. Per questo il dibattito politico e pubblico degli ultimi giorni sulla riapertura delle discoteche interessa anche loro.
L’ultima ipotesi spuntata proprio ieri, 18 maggio, è quella avanzata dal ministro per lo Sviluppo economico Giorgetti che punta a introdurre un green pass per accedere ai club. La decisione nasce dalla necessità di dare «una prospettiva di certezza, che è definita nelle date che conoscete, che è penalizzante, mi rendo conto, per alcun i settori, il caso più eclatante è quello delle discoteche». Secondo Giorgetti, il green pass dunque «è forse l’unica via di fuga rispetto a un’indefinita situazione». Sta di fatto che, al momento, la cabina di regia non ha fissato alcuna data per la riaperture di discoteche e sale da ballo. E i grandi festival dell’elettronica, in alcuni casi, hanno già annunciato che riapriranno i battenti nel 2022.
Passato e presente della scena elettronica
Un ambiente, quello della scena elettronica, che vive un declino strutturale da 10-15 anni. Ora, con la pandemia di Coronavirus, come altri settori del mondo dello spettacolo, è tutto fermo, cristallizzato all’epoca pre Covid. In Italia come nel resto d’Europa già all’inizio del 2000 c’è stato un aggravamento del settore. Gli spazi musicali, e quindi i club, stavano iniziando a chiudere. «In Inghilterra già nel 2015 dicevano che il 40-50% degli spazi avevano chiuso nei 10 anni precedenti».
Riccardo Ramello è l’ideatore e gestore di ClubFuturo, un contenitore che monitora i fenomeni legati alla cultura del club e della musica elettronica in generale, sia in Italia che all’estero. «Per il nostro Paese non esistono dati accurati ma in diverse città – Torino, Milano, Bologna – il numero dei club stava scendendo vertiginosamente. Questo è dovuto a una serie di concause: i cambiamenti relativi alle capienze, le norme di sicurezza. Ma anche l’insostenibilità economica. Ci sono poi quelle che io chiamo dinamiche di panico morale: cittadini che protestano contro i locali rumorosi. In estrema sintesi, l’operare di questo settore non è più visto come qualcosa di sicuro, ed ecco che entra in gioco la crisi».
Con la pandemia, spiega, «la cosa interessante che si è vista fin da subito dopo le prime chiusure è stato il riavvicinamento tra diverse realtà, generata da una necessità del comparto del clubbing. Iniziative pubbliche, lettere aperte con l’obiettivo di sensibilizzare la politica e gli operatori sul fatto che i club non avevano gran considerazione all’interno di quello che viene chiamato “mondo dell’intrattenimento”. Per la prima volta sono nati spazi di confronto in un ambiente super frammentario, dopo che per anni non c’è stata alcuna presa di posizione su come rinnovarsi e nessun dibattito con la politica».
I numeri
L’Agenzia delle entrate nel 2018 stimava circa un migliaio di contribuenti che possedevano una discoteca. Secondo la Silb-Fipe, l’associazione italiana imprese ed intrattenimento, sono 3.500 le attività assimilabili a discoteche, anche se il criterio rimane un po’ vago: rientrano nella cerchia anche gli stabilimenti balneari che organizzano serate sulla spiaggia. Nel 2017 i club perdevano un miliardo di fatturato. Durante il primo lockdown si è parlato di perdite di fatturato fino a 400 milioni con il 70-80% degli incassi in meno, considerata la riapertura del 20% delle discoteche durante l’estate.
Pandemia e artisti emergenti
Paolo Peyron e Alessandro Maccarrone hanno entrambi 27 anni e da quando ne hanno 20 hanno intrapreso la carriera di produttori di musica elettronica fondando insieme il progetto Palindrome. «Stavamo finendo l’album quando l’Italia è stata messa in lockdown: abbiamo dovuto abbandonare la produzione e questo ci ha portato a rivedere alcuni aspetti del lavoro». Il tasto dolente per loro è stato, ovviamente, quello della musica dal vivo: «Non poter essere ingaggiati è già un problema. Poi, come giovani artisti, giriamo con cachet relativamente economici. Considerato che nei periodi migliori riuscivamo a concludere tra i due e i tre concerti al mese, un anno di inattività ci ha parecchio danneggiato. E non avendo grandi realtà alle spalle che investono, ma gli investimenti sono tutti di tasca nostra, quei pochi risparmi pesano enormemente».
Quella dell’elettronica, in Italia, per Alessandro non è una scena inclusiva ma «una sfera di veri emarginati», dice. «Che l’ambiente fosse in declino già prima della pandemia era chiaro, negli ultimi 5 anni, poi, abbiamo assistito a un tracollo. Abbiamo partecipato a serate con nomi importanti con 300 persone di pubblico. Ma questo perché siamo in Italia. Gli esperimenti digitali durante il lockdown non hanno aiutato perché hanno snaturato l’esperienza e si è perso il senso di cosa significhi fare musica elettronica, che per noi è innanzitutto condivisione». Per loro il futuro è già scritto: «Le piccole realtà galleggeranno, ce la faranno i club più grossi». Dunque la scena elettronica è morta? «Eh», risponde senza aggiungere altro.
Direttori artistici e produttori
Luca Giudici
«Il rischio più grosso per la musica in generale e per quella elettronica sia quello di perdere i movimenti underground, le nicchie musicali, i piccoli act, i locali che da anni portano proposte artistiche coraggiose, tutte quelle realtà che non si sono mai veramente istituzionalizzate ma che non per questo sono meno importanti a livello culturale e musicale di un grosso festival». Luca Giudici, giovane parmigiano, è produttore e direttore artistico di eventi legati a stretto giro con la musica elettronica. In passato ha calcato, come dj, il palcoscenico del più celebre festival italiano di musica d’avanguardia e nuovo pop: il Club to Club.
Lo stop pandemico «ha toccato tutti gli aspetti del mio lavoro, spiega Luca, impattando in maniera rilevante sulle mie economie e sulle economie di tutte le persone con cui ho sempre collaborato. Alcune sono rimaste completamente senza un lavoro, altre se ne sono inventate un altro e altre ancora stanno semplicemente aspettando. Parlare di dati dovendomi confrontare con un festival è difficile, ma diciamo che ho subito un calo di circa 40% del mio fatturato».
Su come veda l’ipotesi di ripartenza delle discoteche e dei club, «non mi sono fatto un idea a riguardo, non so cosa sarebbe stato giusto fare o non fare», dice. Gli esempi di Barcellona o Amsterdam «sono stati test che han fatto parlare di sé ma poi vai a capire nello specifico se e come hanno funzionato. Se si vuole andare verso una riapertura del settore ora bisogna che si trovino soluzioni verso una formula che renda fattibile ciò che abbiamo sempre fatto e non che vengano istituite regole che rendono l’organizzazione di eventi di un certo tipo impraticabile e soprattutto non sostenibile a livello economico».
Andrea Esu
44 anni e una passione sfrenata per l’elettronica. Andrea Esu è il papà di L-Ektrica, serata tra le più longeve della Capitale e organizzatore del festival romano Spring Attitude. Per lui il tempo dei bilanci, dopo la ripresa, arriverà «dopo l’estate – nonostante già non ce la passiamo bene: il mio lavoro si è azzerato». Crede sia una «follia» ripartire munendo il pubblico di green pass, per una questione molto semplice: «per ora i giovani quel pass lo vedranno col binocolo. Se lo diamo agli over 40 non dico che possiamo trasformare le discoteche in balere ma quasi».
Già prima della pandemia, spiega, «c’era concorrenza spietata per le ospitate di artisti internazionali con richieste assurde in termini economici. Secondo me ora sarà ancora peggio, perché tutti vorranno fare cassa, artisti compresi». Se gli artisti andranno dietro agli ingaggi più grossi, questo potrebbe tradursi in una maggiorazione dei biglietti: non si rischia di rendere gli eventi dal vivo per pochi eletti, visto che non tutti potranno permettersi di pagare magari 50 euro per una serata? «Saranno situazioni da tavolari, da champagne. Chi ha uno status da super dj, andrà in questi posti». Il rischio è di abbassare la qualità delle serate. «In realtà, dice, la scena underground rimarrà la stessa: continuerà a fare ricerca e a proporre nomi alternativi. Farà solo numeri più piccoli».
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