In Evidenza Benjamin NetanyahuDonald TrumpGoverno Meloni
CULTURA & SPETTACOLOCalcioIntervisteNetflixRoberto BaggioSerie TvVideo

Il “Pojana” Andrea Pennacchi nei panni del padre di Roberto Baggio: «Da non tifoso è stato una grande scoperta: ho anche capito meglio mio papà» – Il video

Il Covid, il ricordo della prigionia del padre, e l'esperienza del Pojana. In occasione dell'uscita del biopic di Netflix sulla vita del calciatore, dove l'attore veneto interpreta il padre del giocatore, Pennacchi si racconta a Open

Quando ha creato il Pojana, e il suo Pojanistan, Andrea Pennacchi dice di essere arrivato giusto qualche secondo prima che la realtà superasse la finzione con l’apparire dello Zaiastan. L’attore veneto, drammaturgo, ma non scrittore, ci tiene a precisare, avvicinatosi al teatro anche grazie al suo rapporto con il territorio veneto, ammette che fare comicità quando la realtà ti batte sul tempo è «una bella sfida. Ti tiene sveglio e attento e ti impedisce di dire cose banali». Pennacchi, dopo il successo del suo Pojana a Propaganda Live, e aver cominciato le riprese della seconda stagione della serie Sky Petra, che lo vede recitare insieme a Paola Cortellesi, arriverà il prossimo 26 maggio su Netflix con Il Divin Codino. Nel primo film su Roberto Baggio, Pennacchi interpreta Florindo Baggio, il padre del calciatore veneto.

Che esperienza è stata ripercorrere la carriera di Baggio?

«Non sono un amante del calcio e lo dico senza nessuna spocchia. A casa mia non si guardavano tanto le partite, poi sono diventato un rugbista. In realtà questo mi ha permesso di non essere imbevuto nel mito dei calciatori, ma solo lambito. Il lavoro sul Divin Codino è diventato cosi una scoperta. La sceneggiatura è scritta molto bene perché ti permette di apprezzare il lato umano di questo campione che è effettivamente abbastanza atipico. Non è solo molto bravo come giocatore ma è anche una persona che fa una ricerca interiore, ha un anelito a qualcosa di più alto e affronta una costante lotta contro le difficoltà che deve affrontare».

Che cosa le ha lasciato l’interpretazione di Florindo Baggio?

«Essere il padre di questo personaggio tormentato in senso narrativo è stato molto utile perché addirittura mi ha aiutato a comprendere il mio di padre. Questo padre che ama il proprio figlio ma ha talmente paura che i suoi sogni siano irraggiungibili o che lui non sia abbastanza forte per ottenerli che lo mette sempre alla prova, cerca sempre di renderlo più forte. Mi ci sono ritrovato. All’inizio pensavo fosse un papà molto veneto, in realtà poi ho pensato che ci sono archetipi di questo padre ovunque. Scherzando dico che il Pojanistan, la terra del Pojana, confina con tutto, ed è vero nel senso che c’è un modo di affrontare le avversità e il futuro, anche crescere le persone a cui vuoi bene, che è simile in molti luoghi».

Dopo anni di teatro, come è stato passare a recitare su un palco un po’ diverso, ovvero quello della tv?

«Nonostante il seme della recitazione sia lo stesso, il passaggio è stato estraniante per certi aspetti. Da una parte è tutto molto familiare, però al tempo stesso è tutto molto nuovo. Il teatro è un dialogo con il pubblico, e l’energia ti arriva dalle persone che hai davanti. Qui, invece, hai una relazione immaginata, posticipata, che è mediata dal montaggio, dalla musica, dall’occhio della regia. A teatro il rapporto lo costruisci man mano. Spessissimo porto a teatro i miei monologhi e quindi sono l’artefice di quello che accade insieme ai musicisti e agli attori in cui recito, qui sono una delle ruote che fa avanzare questo ingranaggio. Però quello che rimane sempre a fine giornata è che ho recitato. Ma sicuramente il teatro mi manca molto».

Nel suo percorso teatrale quanta influenza ha avuto il suo rapporto con il territorio veneto?

«Tantissima, perché io non mi sono mai reputato un drammaturgo, e men che meno scrittore. Pian piano mi sono reso conto che volevo dire le cose che mi agitavano dentro, e che ritenevo interessanti per un pubblico, e che non avevo nessuna voglia di andare a raccontare sul palco i miei problemi. Tutte le persone che ho incontrato, i miei maestri, mi dicevano tutti la stessa cosa: “Più scavi a fondo in te stesso e nelle tue radici, più troverai qualcosa di universale”. Ed è proprio cosi, sei un minatore e vai a scavare nel tuo rapporto con il territorio, altrimenti quello che offri è uno sbudellamento del sé».

Cosa intende?

«È inutile parlare di quanto hai sofferto, che magari il Veneto è tremendo. Cosi va a finire che sul palco offri qualcosa di vittimistico e inutile. Bisogna portare invece qualcosa da condividere, qualcosa che magari alla fine ci abbia lasciato un insegnamento, ma non deve essere esplicito. Altrimenti si sale sul palco per andare in cattedra. Il territorio per me è stato quindi importantissimo purché le radici che vai a trovare siano talmente attorcigliate che spuntano all’improvviso in Alabama o in Cina».

Che ruolo ha la lingua e il dialetto, così presente nelle sue performance del Pojana cinico, ma anche con un ruolo chiave nella sua formazione teatrale?

«Sicuramente c’è una sorta di ambivalenza, ma da attore il primo insegnamento è che il conflitto è il nostro pane. Ci sguazzo nella battaglia, perché viene sempre fuori qualcosa di utile. Il veneto è anche una lingua poetica, come tutti i dialetti. Adoro sentire i vernacoli, anche quando non li capisco. Piuttosto è l’italiano finto, ingessato, quello troppo ben detto, a lasciarmi un po’ freddo. Invece il dialetto è una lingua perfetta per esprimere grandi emozioni che vengono da dentro. E come tutti i dialetti, anche quello veneto, ha una tradizione letteraria che dimentichiamo e questa cosa mi dispiace molto».

Perché?

«Perché sono proprio quelli che dicono che “il Veneto deve essere autonomo” a non conoscere bene la cultura. Discuto sempre con tutti, ma non sono un dialogatore da Twitter, non blocco e non banno nessuno, finchè non partono offese ascolto tutti e parlo con tutti. Mi spiace però che a volte ti trovi di fronte a persone che non sanno neanche chi sia Ruzzante. O non hanno idea dell’importanza straordinaria di Goldoni, non solo per il Veneto, ma per tutta la cultura dell’Italia. Se mi fermo a pensare a chi usa il dialetto in maniera creativa, ce ne sono molti. Posso dire che non siamo pochi».

Nel suo libro, la «Guerra dei Bepi», ha raccontato la prigionia di suo padre a Ebensee, e la prima guerra mondiale combattuta da suo nonno. In quelle pagine parla del “Bepi” come dell’archetipo di giovane disilluso che torna dalla guerra. Oggi, dove sta la disillusione dei giovani?

«Basta guardarsi attorno, a chi è giovane adesso è difficile anche avere solo dei sogni da infrangere. Ho avuto questo privilegio di lavorare spesso nelle scuole e fare laboratori teatrali con i giovani e dico sempre che se il mondo fosse più giusto gli operatori, anche i professori, che si danno da fare in un laboratorio teatrale per adolescenti dovrebbero essere pagati quanto chi fa cinema e chi fa televisione. E’ un lavoro faticoso, va ben al di là delle 4 ore a settimana sul palco. In questo ambiente ho avuto l’opportunità di conoscere la bellezza di questi ragazzi, la loro capacità di sognare e di comporre poesia con facilità. Quello che vedo adesso è che quasi tutto nella realtà concorre per infrangere possibili sogni e aspirazioni».

Una volta uscito dall’ospedale dopo la degenza in terapia intensiva per Coronavirus ha detto di aver trovato gentilezza e umanità. È anche questa un’illusione per il futuro?

«Spero di no. C’è da dire che sicuramente io interpreto dei personaggi cattivi e cinici, ma soffro un po’ a mettere quella maschera per il semplice fatto che uno come il Pojana non esiste. Il Veneto può essere molto cinico, però magari quella stessa persona che vive di stereotipi, e che si focalizza su un solo aspetto della realtà, va a far volontario alla mensa dei poveri, fa beneficenza. Per cui anche io vorrei che una volta usciti dall’ospedale si trovasse quella cura, quell’affetto che si dà al malato, ovunque. Per esempio gli operatori sanitari sono stati messi in condizioni terribili e usuranti. Hanno affrontato situazioni tremende e ripetitive per cui sempre lo stesso trauma».

Che cosa le è rimasto di quella esperienza?

«Anche io in realtà mi sono reso conto che prima di ammalarmi stavo scivolando dentro al meccanismo del bisogna lavorare, fare, correre e questo mi faceva essere un po’ sgarbato anche con le persone a cui volevo bene. Una delle cose che mi porto via è che questo atteggiamento non si deve ripetere, si deve sempre mantenere un equilibrio senza perdere la tenerezza».

Montaggio video: Vincenzo Monaco

Leggi anche:

Articoli di CULTURA & SPETTACOLO più letti