Il contratto di rioccupazione è meno conveniente degli altri già esistenti: perché mai dovrebbe incentivare le aziende ad assumere?
Il Decreto Sostegni bis punta su uno strumento apparentemente molto innovativo e conveniente, il contratto di rioccupazione, per bilanciare gli effetti occupazionali negativi della pandemia e fronteggiare, almeno in parte, gli effetti negativi della prossima scadenza del divieto di licenziamento. Una finalità molto nobile e meritevole che rischia, tuttavia, di scontrarsi con un problema molto grave: il contratto di rioccupazione, per come è costruito, non è affatto più conveniente rispetto agli strumenti esistenti, e quindi probabilmente sarà ignorato dalla grande maggioranza delle imprese. Proviamo a vedere per quali motivi giungiamo a questa conclusione.
L’incentivo economico è solo teorico
Il contratto di rioccupazione garantisce, al verificarsi di alcune condizioni, un “esonero contributivo” (non si pagano i contributi a carico dell’azienda) che arriva fino a un massimo di 500 euro mensili, per un periodo di 6 mesi. Uno sconto complessivo di 3.000 euro, che è tuttavia incerto per diversi motivi: spetta solo alle aziende che non hanno raggiunto la soglia massima fissata dalla Commissione Europea per l’utilizzo degli incentivi per l’occupazione. Le aziende che hanno raggiunto il tetto annuo di incentivino 1.8 milioni di euro non possono, quindi, percepire l’incentivo, che resta quindi appannaggio solo delle piccole e medie imprese.
Ma nemmeno per questi soggetti l’esonero contributivo è garantito: se alla fine dei 6 mesi di inserimento il rapporto non prosegue, l’azienda deve restituire quanto ha percepito. Ma non basta. Anche se il rapporto con il lavoratore continua alla fine dei 6 mesi, l’incentivo deve essere restituito se, nei 6 mesi successivi alla conferma del dipendente, il datore procede a un licenziamento collettivo o individuale per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore impiegato nella medesima unità produttiva e inquadrato con lo stesso livello e categoria legale di inquadramento del lavoratore assunto con il contratto di rioccupazione.
Quale azienda sarà disponibile a investire su un rapporto di lavoro a tempo indeterminato sulla baee di un importo così contenuto e aleatorio? Probabilmente, si verificherà un fenomeno diverso: le aziende che avrebbero comunque proceduto ad assumere, proveranno ad intercettare questo scontro contributivo, che non svolgerà quindi alcuna funzione di incentivo all’assunzione ma servirà solo come sostegno economico alle imprese. Nulla di scandaloso, a patto di chiamare le cose con il loro nome.
Manca il periodo di prova
Un altro elemento di grande rigidità del contratto di rioccupazione consiste nell’inapplicabilità delle regole che governano, nei rapporti normali, il periodo di prova. Un datore di lavoro che assume un dipendente ha diritto di valutare, per un certo periodo, la sua prestazione, potendo licenziare senza troppe formalità il lavoratore che non supera positivamente tale percorso: una flessibilità assicurata dal c.d. periodo di prova, un istituto molto importante per far partire su basi solide e durature i rapporti di lavoro.
Nel contratto di rioccupazione la libertà di licenziare durante il periodo di prova manca: durante i 6 mesi durante i quali il datore di lavoro percepisce l’incentivo contributivo, l’azienda non può intimare il licenziamento, dovendo portare a termine tutto il semestre. Solo alla fine dei 6 mesi è possibile recedere dal rapporto, con una rigidità maggiore di quanto accade durante il periodo di prova (nel quale non bisogna necessariamente attendere la fine del periodo per licenziare). Siamo sicuri che un datore di lavoro abbia voglia di accettare un irrigidimento di uno dei pochi istituti utilizzabili per valutare liberamente le prestazioni del dipendente?
La platea è molto ridotta
Un altro limite importante del contratto di rioccupazione consiste nella platea molto limitata cui può applicarsi tale strumento: vale solo per i lavorarti che siano in possesso dello “stato di disoccupazione”, e si può utilizzare solo fino al 31 ottobre 2021. E vengono esclude le imprese che nei 6 mesi precedenti hanno intimato licenziamenti per motivi organizzativi o economici. Queste limitazioni riducono in maniera importante l’ambito soggettivo e temporale di applicazione dello strumento, tagliando fuori una fetta importante di aziende.
Il progetto di inserimento: un impegno fumoso
Una condizione essenziale che fissa la legge per l’assunzione con il contratto di rioccupazione è la definizione, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento. Tale progetto dovrebbe essere finalizzato, precisa la nuova normativa, a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al nuovo contesto lavorativo. Quale sia il contenuto concreto che dovrà avere questo piano non è chiaro: le aziende e i lavoratori dovranno ingegnarsi nella definizione di percorsi di addestramento che, di fronte a definizioni così generiche, nella maggior parte dei casi si risolveranno in iniziative fumose e poco concrete. Con il rischio che, se il rapporto non procede per il meglio, questa indeterminatezza diventi un motivo per impugnare il contratto (fenomeno molto frequente nel nostro mercato del lavoro). Quali imprese sono disponibili a gestire senza troppi patemi d’animo questa assoluta incertezza applicativa?
Ci sono alternative più convenienti e meno onerose
I limiti visti finora consentono di fare una valutazione sconfortante: il “contratto di rioccupazione” non è più conveniente di altri strumenti che già esistono, come il contratto di apprendistato professionalizzante. Un rapporto che ha incentivi molto più corposi, impegni formativi più precisi (ma non necessariamente più onerosi), regole di gestione più semplici e maggiore stabilità degli incentivi. Pensare che le imprese assumano personale usando uno strumento come il “contratto di rioccupazione” è, quindi, un atto di grande ottimismo, che rischia di scontrarsi presto con la realtà.
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