Edoardo Ferrario e la stand up comedy in podcast: «Si possono fare battute su ebrei, gay, biondi e brutti. L’umorismo è confronto se non si insulta»
Si è inventato un nuovo modo di fare comicità, cavalcando l’onda del momento – quella dei podcast -, e unendoci l’umorismo che in più di 10 anni di attività è diventato il suo mestiere. Edoardo Ferrario, stand up comedian classe 1987, ha smorzato l’angoscia da pandemia così: si è incontrato con il collega Luca Ravenna – reduce da LOL – Chi ride è fuori – dopo una serata, lo scorso ottobre, passata nel quartiere San Lorenzo di Roma a rimuginare sul fatto che per molto tempo non avrebbero potuto fare spettacoli dal vivo. «Una tragedia per chi fa questo mestiere, perché il pubblico è come l’aria che respiri», dice. Da lì è nato Cachemire – Un podcast morbidissimo, una serie in cui i due passano un’ora o poco più a fare esattamente quello che farebbero sul palcoscenico: i comici. Il podcast ha avuto talmente successo, schizzando in cima alle classifiche, che i due hanno pensato, ora che le nuove disposizioni lo permettono, di portare lo stesso format in giro per i teatri d’Italia nel tour estivo che partirà il prossimo 14 giugno.
Edoardo, quanto ci si diverte a creare un podcast comico?
«Moltissimo, soprattutto se il progetto nasce dall’impossibilità di vedersi dal vivo. Per non fermarci e per non passare il tempo su Instagram – perché non siamo bravi con quel tipo di mezzo – ci siamo chiesti: perché non un podcast? Alla fine questo ci consente di continuare a scrivere materiale comico e di rivolgerci al nostro pubblico. Ci tiene in allenamento per i live che verranno».
Cambia molto la percezione di quello che stai facendo rispetto a uno spettacolo dal vivo?
«Cambia perché il pubblico non c’è, anche se, in un certo senso, io penso che già una sola persona sia pubblico. Io e Luca (Ravenna, ndr) abbiamo sempre l’ambizione di far ridere l’altro e noi siamo l’uno per l’altro la prova del nove. Col tempo abbiamo poi coinvolto gli operatori che girano e registrano, che sono diventati la nostra platea ma alla fine anche autori».
Ti ritieni una persona simpatica, che fa ridere sul serio?
«Diciamo che nel corso della vita ho avuto prova di poter dare una risposta affermativa a questa domanda (ride). Mi è sempre piaciuto il meccanismo della battuta e della risata. Quand’ero più giovane imitavo i comici che imitavano personaggi della tv e del mondo dello spettacolo. Poi è stato il turno dei professori e la comicità è diventata una cosa seria, una professione».
Come ci si sente ad essere stato il primo stand up comedian italiano ad essere inserito nel catalogo Netflix?
«Nasce un gran senso di responsabilità e di enorme felicità. Dopo un paio di mesi dalla notizia mi hanno detto: “Il tuo spettacolo verrà distribuito in tutti i 190 paesi in cui arriva Netflix”. Mi hanno scritto dal Giappone per complimentarsi».
Perché tu e non altri?
«Mi avvalgo facoltà di non rispondere».
Credi che ormai con la scusa della “giusta causa” del momento, indipendentemente da quale sia, i comici abbiano deciso di tirare i remi in barca, e di non osare più perché, nel caso lo facessero, verrebbero linciati dal tribunale del web, per esempio?
«Viviamo in un’epoca in cui c’è molta paura di urtare la sensibilità altrui. Noi comici dobbiamo avere sensibilità. Quando però arrivo a fare un certo tipo di battuta, che per altri può essere scorretta, c’è sempre una verità di fondo, e sono responsabile di quella verità».
Quindi qual è il problema?
«Pur di non urtare i sentimenti, tutto il mondo dell’arte sta manifestando una sorta di cautela che non serve, che porta a mancanza di comunicazione e quindi di curiosità, che è poi il vero pericolo per noi artisti».
Poniamo il caso qualcuno voglia scrivere un monologo sui disabili: pensi oggi ci sia più reticenza a farlo rispetto a qualche anno fa?
«Credo di sì. E credo anche che quando si solleva l’ondata di indignazione, è perché molto spesso viene urtata la sensibilità di chi non è disabile, no di chi invece lo è. Una battuta non è necessariamente un’offesa. La comicità è un punto di vista: non rendo ridicolo chi ha un problema».
Prendiamo ora tre minoranze: ebrei, neri e omosessuali. Si può fare dell’umorismo, senza offendere, su di loro?
«Ma certo che si può, perché no? Così come si possono fare battute sugli italiani, i grassi, i brutti, i biondi. Poi se fai una battuta omofoba, quindi con l’intento di offendere, sei una persona pericolosa. Detto questo, l’umorismo può essere una forma di confronto con il diretto bersaglio della battuta».
Sei nato a Balduina, zona della Roma bene, come la collega Michela Giraud. Dimmi tre luoghi comuni di Roma nord.
«A Roma nord hanno tutti la smart, la domenica vanno a pranzo a Fregene e d’inverno vanno tutti a Cortina. La cosa assurda è che per la maggior parte dei casi è così. Mi piace parlare di stereotipi, mi piace parlare dei luoghi in cui sono cresciuto: ma anche in questo caso, bisogna saperlo fare».
Alla fine di un tuo spettacolo ti hanno mai detto: “Guarda, non mi sei piaciuto”?
«La volta che ricordo meglio è quella in cui avevo fatto un pezzo sul doppiaggio e sono stato criticato da chi apprezza quel mondo lì: “Non capisci niente” è stato il commento più gentile».
Cosa non ti piace?
«Non mi piace quando persone che non mi ascoltano e non conoscono il mio lavoro, mi dicono di chiedere scusa per qualcosa che può avere urtato altri».
Ci sono oggi comici che non ti piacciono proprio?
«Certo».
Rispetto al tuo modo di fare comicità, quanto attecchisci sulle nuove generazioni?
«Credo si debba parlare la lingua del proprio tempo, io parlo a tutti. E pare funzioni».
FOTO IN COPERTINA: Liliana Ricci
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