Da Fedez al sondaggio sulle donne, il «maggio orribile» della Rai che guarda al passato (e subisce i social)
La Rai oggi più che mai è ben rappresentata dal cavallo di Francesco Messina in Viale Mazzini. Una postura in cui ognuno ci vede un po’ quel che preferisce, a dir il vero. L’idea originaria era quella di un cavallo rampante, che desse l’idea di forza e potere nell’era della comunicazione di massa. Con l’andar del tempo, a causa dell’usura degli agenti esterni atmosferici, è diventato sempre più un cavallo che ha mostrato le proprie abrasioni, le proprie “ferite”, sino a risultare più “morente” che spregiudicatamente ambizioso. E gli agenti atmosferici esterni, nel caso delle produzioni vere e proprie della tv di Stato, risentono inevitabilmente delle stesse usure e dell’incapacità dell’azienda di saper correre e riformarsi con costanza. Ma anche solo di saper stare – quantomeno – al passo con il tempo esterno e con quella che è la realtà fuori dai cancelli di Viale Mazzini.
Il caso Fedez
E in quest’ultimo maggio prima della scadenza dell’attuale Consiglio di Amministrazione (che avverrà a fine giugno), la Rai ha mostrato più volte il suo esser spesso fuori dal mondo. “Mamma Rai” è arroccata e trincerata su se stessa non appena sopraggiunge una critica, ben restia dal tentare di dialogare con un nuovo pubblico. Basti pensare a quanto accaduto con Fedez al Concertone del Primo Maggio. Un caso che – di fatto – non lo sarebbe diventato, dato che la Rai aveva avuto notizia di quanto sarebbe successo già dal giorno precedente. Ha deciso di rimanere immobile. Ha fatto scorrere il tutto. Ma la pubblicazione della telefonata ha scombussolato le cose. E da lì, semmai, si è aperto il “caso”, in uno scontro tra media diversi che solo talvolta sanno dialogare tra loro all’interno della Rai. Ma in quel caso sono andati in collisione. Eppure, “censura” o non censura, con quell’intervento la Rai è uscita dal buio del palinsesto grazie all’attenzione di un nuovo pubblico che sporadicamente riesce ad attrarre.
Questo è accaduto forse con le ultime edizioni di Sanremo, con l’ultima edizione dell’Eurovision, con qualche partita della Nazionale, con alcune mini-serie televisive e pochissimi programmi di varietà (in seconda o terza serata, rigorosamente). Tutti eventi che hanno un elemento in comune: quello del rito collettivo, della cross-medialità con un pubblico che commenta sui social, portando con sé ulteriori spettatori a seguire la stessa trasmissione. Il tutto in un rituale che, negli anni Novanta e all’inizio del Duemila, era andato un po’ perduto. Ma il rito si è spostato, smaterializzato ed è tornato. E non per questo ha perso d’enfasi o coralità. Ed è proprio qui che la Rai talvolta splende. Ma spesso arranca, scontrandosi con una realtà che ha già superato certi vetusti retaggi nazional-popolari. E su questo la Rai ha un problema: questo nuovo pubblico lo guarda da lontano, e non riesce a conquistarne la fiducia nel tempo.
La distanza abissale tra il prodotto e il pubblico
Nel caso di Fedez la Rai è diventata palcoscenico di un “dibattito” su tema sociale e politico. Ma questo è avvenuto non per uno scambio in un qualche talk show serale di propria produzione. No. È diventato un surrogato di tribuna politica dal palco di un concerto, peraltro organizzato esternamente. Eppure il ddl Zan è uno degli innumerevoli temi che fanno parte della quotidianità di una fetta di società: è cosa pubblica. E questi argomenti, almeno nella funzione pubblica di una tv di Stato, dovrebbero già essere presenti nella scaletta dei vari palinsesti. Cercando di dare una risposta, o quantomeno degli spunti di riflessione costruttiva, agli interrogativi – legittimi – degli spettatori contribuenti. Inclusi i nuovi spettatori che la Rai non riesce a conquistare del tutto. Ci prova ogni tanto, bisogna darne atto. Ma gli sprazzi di poca luce della curiosità innescata vengono subito ricoperti dall’oscurità data dall’inclinazione dell’azienda di chiudersi a riccio alla prima critica, che diventa subito dopo una lotta tra dentro e fuori, tra “noi” e “voi”, creando una distanza abissale tra prodotto radiotelevisivo e fruitori.
E ne è esempio anche l’ultima polemica, in ordine temporale, sul sondaggio sessista andato in onda lo scorso sabato. Prima serata, primo canale: «Cosa sanno fare meglio le donne? Curare la casa, cucinare». Ancora stiamo a discutere di queste cose? Giornali femminili venne scritta da Luigi Tenco a metà degli anni Sessanta. E siamo ancora lì. Fa sorridere, ancora. Ma con amarezza: sono passati quasi cinquant’anni. Pare non ci sia mica mossi. Certo, si potrà rispondere: “È un sondaggio, non è espressione del pensiero aziendale”. Certo, lo si conceda. Ma perché un ventenne, un trentenne, un quarantenne dovrebbe assistere a uno “spettacolo” simile? Cosa ci guadagna? Quindici secondi di indignazione? E poi? Il nulla, in un continuo zapping di non-indignazione e di non-soluzione a questioni e problemi culturali radicati. Ma a guardar bene ci sarebbero anche tante domande da porre: perché spendere soldi pubblici per un sondaggio così impietoso, proprio a partire dalla concezione della domanda? Non è possibile intrattenere un pubblico generalista in altro modo? È il risultato di un perverso tentativo di far parlare di sé e far polemica a posteriori?
Il futuro del servizio pubblico
Davvero la Rai vuole esser “mamma” di queste archeologiche “polemichette” o vuole iniziare a progettare qualche nuovo orizzonte nella propria comunicazione, sia nella sostanza e – di conseguenza – nella forma? Un po’ più spregiudicata, un po’ più ambiziosa, ma almeno che dia qualche spunto per mettere in atto una riflessione un po’ meno stantia. Si dirà: è il riflesso del Paese. Non c’è dubbio che in molti casi lo sia. Ma veramente non c’è un’alternativa? Un guizzo? Una scintilla? Un nuovo orizzonte? Che gran spreco, che gran peccato sarebbe. Però, dopo questa pandemia, anche la Rai deve decidere cosa vuole fare ed essere da grande e del proprio futuro. E questa volta lo dovrà fare per davvero, dall’interno dei propri studi sino al cavallo esterno in Viale Mazzini. È tempo di un’intervento di restauro generazionale, almeno. Che poi, restaurare vuol dire prendersi cura, anche con leggerezza. E in questi tempi insicuri e incerti dopo tanta brutalità, il prendersi cura, che non è un atto affatto facile, potrebbe essere l’obiettivo più rampante e ambizioso per la Rai del futuro.
Foto in copertina: ANSA/RICCARDO ANTIMIANI
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