Il nuovo governo israeliano, tra fragili equilibri e un possibile colpo di coda di Netanyahu
Ieri sera il partito Yamina di Naftali Bennett e il partito Tikva Hadasha di Gideon Sa’ar hanno deciso di unirsi alla coalizione proposta da Yair Lapid, leader di Yesh Atid, e da Benny Gantz, leader di Kahol Lavan, dichiarando di aver trovato un accordo sui contorni del governo e sulle questioni fondamentali. Dopo tre giorni di negoziati intensi, a poche ore dalla fine del mandato esplorativo Lapid ha trovato un modo per risolvere il rompicapo israeliano, e porre fine a 12 anni consecutivi di governi del premier Benjamin Netanyahu, l’uomo che ha polarizzato a tal punto la politica israeliana da mettere d’accordo partiti inconciliabili pur di rimuoverlo dal potere. L’accordo prevede la rotazione del ruolo di capo del governo. Bennett sarà premier per i primi due anni, dopodiché cederà il ruolo a Lapid, che sarà premier per i due anni successivi fino a fine mandato. Per la prima volta nella storia dello Stato di Israele, una coalizione di maggioranza include un partito degli arabi. Dopo la comunicazione ufficiale, il Presidente della Repubblica Reuven Rivlin si è congratulato con Lapid dicendo che ora si aspetta che la Knesset si riunisca rapidamente per ratificare l’accordo.
Tutti contro Bibi
La coalizione anti-Netanyahu è composta da otto partiti che abbracciano tutto lo spettro politico, dall’estrema destra all’estrema sinistra: Yesh Atid (“c’è un futuro”) con 17 seggi, Kahol Lavan (“blu e bianco”) con 8 seggi; HaAvoda (“laburisti”), Yamina (“a destra”) e Yisrael Beytenu (“Israele casa nostra”) con 7 seggi ciascuno, Tikva Hadasha (“nuova speranza”) e Meretz (“energia”) con 6 seggi ciascuno; e infine il partito arabo-islamico Ra’am con i suoi 4 seggi, anch’esso determinante. La maggioranza sarà di 62 seggi su 120 totali. In questi anni Netanyahu ha trasformato i suoi alleati in rivali, e quando si è trovato alle strette, ha cercato di negoziare con Mansour Abbas, leader del partito arabo-islamico Ra’am sdoganandolo e legittimandolo agli occhi della destra. Re Bibi era disposto a tutto per sfuggire dai processi, ora è stato messo da parte da avversari disposti a tutto pur di escluderlo. La firma sull’accordo però non significa la fine immediata dei 12 anni di potere di Netanyahu. Adesso l’accordo va ratificato in parlamento, un voto che dovrebbe essere messa in agenda per la prossima settimana, e solo dopo Bennett potrà giurare da premier. Netanyahu userà il suo ruolo di premier uscente fino all’ultimo giorno utile per cercare di convincere i parlamentari a negare a Lapid e Bennett la maggioranza di 61 seggi.
Un governo impossibile
Nonostante la storia personale da soldato delle forze speciali e imprenditore di successo nell’high tech, Bennett è un nazionalista religioso sostenitore del movimento per la colonizzazione dei territori occupati, del tutto contrario alla creazione di uno stato palestinese. La coalizione di cui sarà premier è un improbabile assortimento di partiti che vanno dalla sinistra laburista all’estrema sinistra anti-occupazione di Meretz, fino alla destra laica e di Yisrael Beiteinu. Lapid dal canto suo, se pur centrista, è molto tiepido nei confronti della prospettiva di porre fine all’occupazione, così come gli altri partiti centristi. La lista dei ministri ancora non è chiara, ma questo governo per funzionare dovrà limitarsi ad amministrare gli affari interni, al rilancio dell’economia e all’uscita dalla pandemia, evitando con cura di affrontare la questione palestinese. Poi ci sono i dossier internazionali, come i rapporti ostili con l’Iran in vista della ripresa del negoziato per l’accordo sul nucleare (JCPOA) e le relazioni tese con la Turchia, nel Mediterraneo e non solo. Dossier da cui il governo israeliano non potrà sottrarsi. Inoltre, in qualità di premier Bennett avrà poteri esecutivi e la visibilità – nazionale e internazionale – per fare cambiamenti o consolidare lo status quo a suo piacimento, senza il pieno consenso della coalizione. Il conflitto quindi è assicurato.
Cosa farà Netanyahu?
Al potere per un totale di 15 anni – dal 1996 al 1999, e poi dal 2009 – Netanyahu ha cercato disperatamente di far naufragare l’accordo dei suoi avversari, che non rappresentano solo una minaccia solo per la sua vita politica, ma anche per la sua libertà. Il premier più longevo della storia di Israele attualmente sta combattendo tre casi di corruzione con accuse di frode, concussione e violazione della fiducia (che lui respinge del tutto). Se andrà all’opposizione, la Knesset potrebbe negargli l’immunità parlamentare, e il nuovo governo approvare una legge per escluderlo dall’incarico in futuro. Forse nel medio periodo sarà questo il vero obiettivo della coalizione, e una volta usciti dalla pandemia e sconfitto definitivamente Netanyahu, questi leader potrebbero decidere che è arrivato il momento di tornare a misurarsi nelle urne.
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