Tassa globale per i colossi del web: Facebook e Google a favore dell’«accordo storico» al G7
Google e Facebook hanno detto sì. I due colossi del web si sono detti a favore dell’accordo del G7, riunitosi a Londra, sulla tassazione globale delle multinazionali, che tocca direttamente i loro interesse anche se non arriva, come avrebbe voluto la Francia, a prendere esplicitamente di mira i colossi digitali. La società proprietaria del social network più in voga al mondo ha fatto sapere tramite Nick Clegg, vicepresidente degli affari globali di Facebook, che «vogliamo che la riforma della tassazione internazionale abbia successo, e riconosciamo che potrebbe significare un carico fiscale maggiore per Facebook, e in diversi Paesi». Un portavoce di Google, secondo Sky News, ha dichiarato che il gruppo è fortemente a favore dell’iniziativa e spera in un accordo finale «bilanciato e durevole».
Il Cancelliere sello Scacchiere inglese, Rishi Sunak, lo ha definito «un accordo storico». Un obiettivo inseguito «dopo 4 anni di combattimenti per la tassazione minima sulle aziende e i colossi digitali», ha commentato il ministro francese Bruno Le Maire. L’obiettivo è parte di uno sforzo più ampio per costringere le grandi aziende dell’high tech e le multinazionali a pagare più tasse nei paesi in cui fanno i maggiori guadagni, e impedire che continuino a esserci dei paradisi fiscali in cui aziende come Microsoft e Amazon possono rifugiarsi per non pagare tasse sulla maggior parte dei profitti globali. I membri del G7 sono Stati Uniti, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia, Italia e Canada.
I governi dei grandi paesi da sempre affrontano il problema di come tassare le multinazionali che operano in quasi tutti i paesi, ma la sfida è cresciuta in modo spropositato con il boom delle grandi aziende dell’high tech – a partire dalle GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), ma non solo – in grado di consolidarsi praticamente ovunque grazie a internet. Al momento queste aziende possono creare filiali locali in paesi che hanno aliquote dell’imposta sulle società relativamente basse, e dichiarare utili lì. Grazie alle aree di libero scambio, ciò significa che pagano solo l’aliquota fiscale locale, anche se i profitti provengono principalmente da transazioni effettuate altrove.
Tutto questo è perfettamente legale, garantito dal diritto societario e dai trattati commerciali. Il piano, in discussione da ieri, mira a correggere questa stortura e si basa su due pilastri: le multinazionali dovranno essere vincolate a pagare più tasse sui profitti ottenuti nei Paesi in cui vendono i loro beni e servizi, fissare un’aliquota minima fissata al 15% per evitare corse al ribasso; le regole mireranno a far pagare le tasse alle aziende nei paesi in cui vendono effettivamente i loro prodotti o servizi, piuttosto che dove finiscono per dichiararli. L’accordo prevede dichiarazione sui principi del nuovo sistema da discutere in contesti più allargati, a cominciare dal G20 di Venezia, in programma per il 9 luglio.
La svolta è arrivata con l’amministrazione Biden
L’argomento dell’elusione fiscale globale viene discusso da anni dalle 38 nazioni dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), ma gli sforzi per raggiunger un accordo hanno trovato una svolta quando il presidente degli USA Joe Biden ha presentato un piano per un’imposta globale minima sulle grandi aziende da fissare al 15%, accogliendo le richieste di estendere l’ambito oltre il settore tecnologico per coprire le 100 multinazionali più grandi del mondo. Uno dei punti critici della discussione è la richiesta degli USA che Francia, Italia e Regno Unito abbandonino immediatamente le tasse sul digitale dopo il raggiungimento dell’accordo, perciò prima che venga effettivamente implementato portando entrate fiscali. Gli europei non sono entusiasti della richiesta, soprattutto la Francia, e la Commissione europea non ha dato alcun segnale di essere pronta ad abbandonare i suoi progetti per una digital tax.
La posizione dei quattro grandi dell’eurozona
Le maggiori economie dell’Unione europea si sono presentate al vertice facendo fronte comune. Con una lettera pubblicata sul Guardian, i ministri delle finanze di Francia, Germania e Italia e Spagna – quest’ultima non fa parte del G7 – affermano che è arrivato il momento in cui non si può più rimandare il dossier dell’elusione fiscale, dato che oggi i governi di tutto il mondo anno bisogno di risorse per rilanciare le economie dopo il Covid-19. La lettera rappresentava tre dei sette ministri presenti, ed è firmata dal ministro delle finanze francese Bruno Le Maire, dal tedesco Olaf Scholz e dall’italiano Daniele Franco. Sebbene il suo paese non sia membro del G7, anche la ministra delle finanze spagnola Nadia Calviño ha firmato la lettera, per dimostrare l’unità delle quattro maggiori economie dell’eurozona. Secondo uno studio appena pubblicato dall’EU Tax Observatory, con un accordo di questo tipo le entrate fiscali dei paesi europei potrebbero crescere di una quota compresa tra il 13% e il 50%. Dalle stime risulta che un’aliquota minima del 15% porterebbe nelle casse dei paesi Ue circa 50 miliardi di euro in più all’anno. Tuttavia, anche con un accordo del G7 non sarà facile convincere i paesi che usano la concorrenza fiscale per attirare investimenti e capitali finanziari.
Mettere in pratica la proposta sarà difficile
Per applicare la proposta a livello Ue serviranno decisione unanimi di tutti gli Stati membri, nessuno escluso. Il ministro delle finanze irlandese Pascal Donohoe, commentando la proposta statunitense ha dichiarato: «abbiamo serie riserve, l’attuale sistema fiscale dell’Irlanda (con un’aliquota del 12,5%) sarà ancora in vigore tra cinque o dieci anni». Il ministro delle finanze cipriota Constantinos Petrides ha detto chiaramente che Cipro è pronta a mettere il veto sull’eventuale direttiva per introdurre il nuovo regime fiscale. Inoltre, mentre il consenso su un’aliquota fiscale minima può essere relativamente facile da raggiungere, le cose possono diventare molto più complesse quando si tratta di stabilire come suddividere le entrate fiscali tra i Paesi a seconda di dove le imprese vendono i loro beni e servizi, una decisione che renderebbe necessario riorganizzare nel dettaglio la ripartizione dei diritti di imposizione tra Stati membri.
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