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Il ritorno dei Ministri, nel nuovo album l’Italia della pandemia tra «Cronaca nera e musica leggera» – L’intervista

09 Giugno 2021 - 08:32 Maria Pia Mazza
La situazione del rock italiano, l’impegno sociale e politico dell’artista, la realtà della pandemia e la responsabilità della ricostruzione, la spinta al racconto del quotidiano e il riflesso sulle nostre vite. A Open parla Federico Dragogna dei Ministri

In questi ultimi tempi si è parlato molto del ritorno del rock in Italia e del rinnovato impegno politico della musica. Un ritorno che certo, va ancora verificato. Nel mezzo di questa discussione, senza farlo apposta, è arrivato un mini-album che mette insieme sia il rock sia l’impegno politico. Sono tornati i Ministri con Cronaca nera e musica leggera, che anticipa l’uscita del prossimo album. E quando Federico Dragogna, Davide Autelitano e Michele Esposito fanno capolino, non accade mai per caso, né per obbligo. Conservano, costruiscono, affinano scrupolosamente tutto fino a quando non hanno davvero qualcosa da dire. O meglio: «Qualcosa da dire e ricordare a noi stessi, ben prima che fare i sermoni agli altri», come racconta a Open Federico Dragogna. I Ministri, con questi quattro brani (Peggio di Niente, Bagnini, Inferno e Cronaca nera e musica leggera) rispondono a una domanda.

Una richiesta che non arriva dal pubblico, ma da oltre un anno e mezzo di confronto tra i tre sulle responsabilità che vogliono prendersi l’un l’altro, oltre a quelle verso gli ascoltatori. «Ci siamo chiesti: “Noi che cosa vorremmo in questo momento? Cosa ci manca?”», spiega ancora Dragogna. Ed è per questo che l’Ep va a colmare un vuoto che si era venuto a creare, innegabilmente, dopo almeno cinque anni pregni di musica persino troppo leggera nel suono e, soprattutto, nel contenuto. E no, non è un riferimento a Musica leggerissima. Tutt’altro. Come racconta Federico, «la musica può dare profondità, leggerezza, svago, impegno, sonno, tutta una serie di cose». 

E quindi, Federico, quando avete deciso che volevate tornare?

«L’Ep è nato dopo un ragionamento artistico ed emotivo. È nato nel lockdown del 2021. Questo è stato pure peggiore rispetto al quello del 2020, che perlomeno ha lasciato a tutti una traccia. Quest’anno, invece, è stato un surrogato della vita di prima, ma con tutte le cose belle tolte, con tutti i sospetti e con tanta tossicità in primo piano». 

Più di qualche accenno alla tossicità emerge dal primo singolo che avete pubblicato, Peggio di niente

«È un pezzo un po’ anomalo dal punto di vista musicale, perché va da un 106 di bpm, che è un tempo che non abbiamo mai usato. Paradossalmente molte persone han reagito dicendo “Wow i tipici Ministri!”. Ma se si va a sentire i nostri vecchi brani, moltihanno proprio un’andatura diversa. Il testo invece è stato scritto in salotto durante il primo lockdown. Un altro paradosso: sembra il pezzo meno seduto del mondo, ma l’ho scritto seduto, isolato in una stanza a immaginare il mondo esterno. Ovviamente poi mi sono confrontato con Divi e Michele: la sintesi è possibile solo grazie al confronto tra tutti noi». 

E hai visto anche la Nina di De André volare. E poi “cadere”. Puoi svelarci il significato?

«De André fa letteralmente parte del mio vocabolario, come anche Ritorno al futuro. Non sono neppure cose che ho bisogno di ascoltare, entrano a far parte del linguaggio. Era una citazione necessaria per capire quello che stava succedendo. Lui aveva visto la Nina volare, e nel suo caso era una bambina sull’altalena. Nel nostro pezzo invece ci riferiamo a quello che han dovuto subire i bambini di tutta Italia nell’ultimo anno e mezzo. Forse ora si inizia a capire quanto è stato tolto loro. Non a caso, qualche tempo fa, Sergio Mattarella disse proprio che “Abbiamo un debito con le persone giovani di questo Paese”. Meno male che qualcuno se ne sta accorgendo». 

E poi avete visto anche “gente normale”, poi “gente speciale” e poi ancora “gente bestiale calpestare altra gente ed era peggio di niente”. Insomma, non si son viste belle situazioni. Anzi.

«Abbiamo deciso di usare questo registro per cui oggi si usa il termine “gente” con un fare quasi dispregiativo, mentre prima lo si chiamava “popolo”, con una connotazione più nobile. Dall’alto della politica, e poi giù a cascata, si è incessantemente puntato il dito contro costumi, contro abitudini anche innocue, su tutto e tutti, con un atteggiamento per cui sembrava quasi che il popolo avesse sempre una sorta di qualche colpa in questa pandemia. Questa cosa di associare la malattia alla colpa, poi, è stata terribile. E di questo ci eravamo stufati. È stato davvero troppo vedere quante categorie sono state additate, quanto stigma sociale si è creato, quanti sono stati abbandonati». 

Passano gli anni ma nei vostri testi la critica c’è sempre. Le cose non le mandate certo a dire.

«Certe volte è più per dirle a noi stessi, che per dirle agli altri. Questi testi non partono mai da una sicurezza morale, per cui si sale su una torre e si dice: “Ah, sentite cos’abbiamo da dirvi!”. È accorgersi, nel corso della vita, di funzionare su certi paradigmi. Tutto quello che viene narrato nei nostri brani, da sempre, sono riflessioni, paradossi, peccati, cortocircuiti su cui funzioniamo anche noi. È un modo per mettersi in mezzo, nel fango, non abbiamo nessuna zattera. E poi non è solo raccontare la quotidianità sociale e politica, ma i riflessi che crea su noi tutti». 

Nel pieno della pandemia, più di qualcuno ha rievocato la vostra Milano non ha scelta. Posto che nasceva in una situazione diversa, c’è forse qualche elemento che la rende sovrapponibile alla Milano al tempo del lockdown?

«Questa cosa mi fa pensare a come le canzoni talvolta possano servire per trovare un modo per raccontare quello che si sta vivendo, facendolo diventare voce. Quando una cosa diventa voce allora sì che le cose cambiano. Tutto diventa azione, è il provarci Comunque, per citarci. Comunque Milano non ha scelta era un pezzo scritto a ridosso delle amministrative. Parlavamo di Milano e di una gestione che per anni, a nostro avviso, era stata povera e brutta». 

Che Milano era?

«All’epoca si apriva alla possibilità di una nuova era a cui partecipammo anche con un concerto in Stazione Centrale a favore di Pisapia. E quello è stato l’unico endorsement politico che abbiamo mai fatto. E a guardarlo a posteriori, tutto sommato, ci avevamo visto abbastanza bene. Poi certo, non tutto è sempre stato splendente, ma c’è stata molta meno oscurità. E poi, volendo, c’è anche Tempi bui, che scrivemmo quando si parlava di questo nome di un nuovo Partito, democratico». 

Possiamo dire che siete una delle prove del fatto che forse non è proprio vero che tutta la musica italiana non si è più occupata di questioni sociali e politiche negli ultimi anni?

«Negli anni ’90 la musica ha avuto un grande peso politico. In altri tempi meno. Diciamo che usciamo dagli ultimi 5-6 anni in cui c’è stata una grandissima voglia di leggerezza. In questo contesto, forse si voleva che la musica fosse un po’ più evanescente e non parlasse troppo di cose fastidiose. E adesso questa cosa sta sta tornando, almeno in parte. Ma attenzione a non incappare su certe differenze sostanziali».

Quali sono?

«Un conto è quando gli artisti si esprimono sui loro social su questioni di attualità. Però questa è una cosa che non riguarda propriamente la musica. Riguarda la comunicazione e l’espressione del proprio pensiero su una certa tematica. Il che va benissimo. Anche noi l’abbiamo fatto a nostro tempo. Ma quello non ci qualifica come artisti. In questo senso ci qualifica la sostanza di  quello che creiamo, le nostre opere. Per noi è importante che gli artisti abbiano la libertà di esprimersi quando sentono di aver qualcosa da dire, anche se in modo leggero». 

Quando abbiamo parlato dei Maneskin, molti lettori vi hanno citato assieme agli Zen Circus e agli Afterhours dicendo che solo voi e pochissimi altri tenete vivo il vero rock italiano. Visto che vi hanno chiamato in causa, che ne pensi di questa diatriba? 

«Da lontano probabilmente qualcuno vede noi, i Maneskin, gli Zen, gli After e tutti gli altri e dice “Ok questo è rock”. Dopodiché per il resto tutto varia dai gusti personali. Per dirla alla Celentano, siamo un Paese che mette tutto dentro al cestone della parola “rock”. All’interno di questo cestone, però, ci sono un sacco di sensibilità diverse e rapporti diversi con i linguaggi e temi. Noi abbiamo un certo numero di cose in comune con gli Zen Circus, alcune affinità con gli Afterhours, altre con altre band italiane e internazionali e un altro po’ forse anche con i Maneskin. Ciò detto, di augurare lunga vita al rock’n’roll non è una cosa che propriamente fa per noi. Senza nulla togliere a chi lo fa, per carità». 

Si è creato il solito ciclico scontro di chi vuole dimostrare di saperne più dell’altro, ma spostandosi sul livello generazionale, non trovi?

«Penso sia la conseguenza del fatto che negli ultimi anni il mondo si sia abituato a vedere la musica come una gara. Che noia, però. Per noi la musica non è mai stata una gara. Avete mai visto Neil Young vincere un Festival o chiedere i voti? Che noia! Ecco: sono proprio contento ora che i Maneskin potranno evitarsi finalmente altre gare. Certo, è anche vero che ormai le han proprio vinte tutte, perbacco!».

Foto in copertina: Ministri © Chiara Mirelli

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