Nigeria, nella sentenza di assoluzione dell’Eni l’attacco dei giudici ai pm: «Ignorato un documento a favore degli imputati. Teste chiave imbarazzante»
Non ci sono «prove certe e affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo contestato». Questo il principio alla base della sentenza che, lo scorso 17 marzo, ha portato all’assoluzione degli imputati per la presunta corruzione in Nigeria, tra cui figuravano membri del gruppo Shell, Eni, l’ad della compagnia petrolifera italiana Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni. Ma sono gli stessi giudici del tribunale di Milano che, nonostante «non sia stato possibile ricostruire con certezza i fatti», ammettono che «alcuni profili della vicenda restano in parte oscuri». Circa le condotte contestate a Descalzi, i magistrati rilevano che «manca il riferimento, anche solo nella forma attenuata della consapevolezza, alla condotta tipica della partecipazione agli accordi corruttivi» che avrebbero riguardato l’ex presidente nigeriano Goodluck Jonathan e l’ex guardasigilli Adoke Bello, i pubblici ufficiali che avrebbero ricevuto pressioni per «adottare gli accordi transattivi del 29 aprile 2011 in contrasto con la legge nigeriana, per favorire le compagnie petrolifere».
Manca la prova chiave
Manca la prova chiave del reato di corruzione, ovvero la certezza che l’ammontare di denaro contante movimentato sia finito in toto o in parte nelle mani dei funzionari nigeriani, sotto forma di tangenti. I giudici di Milano, sebbene concordino «con l’accusa – che – l’ammontare di denaro non tracciabile movimentato – sia – una prova indiziaria del carattere genericamente illecito dei pagamenti derivanti dai proventi» del blocco petrolifero Opl245, non ritengono «condivisibile l’assunto conclusivo che gran parte di tale somma in contanti, se non tutta, sia finita nella disponibilità dei pubblici ufficiali nigeriani che hanno reso possibile accordi illeciti». Gli «illeciti pagamenti», di cui l’aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro accusano Eni, erano stati definiti dalla procura come la più grande tangente mai pagata da una società italiana, ovvero 1,092 miliardi di euro. I fatti risalirebbero al 2011 e vedrebbero coinvolte Eni e Shell, aziende petrolifere che avrebbero acquistato i diritti di esplorazione del giacimento Opl245 grazie alle mazzette girate ai politici di Abuja. Lo scorso 17 marzo, tuttavia, è arrivata l’assoluzione per tutti gli imputati nel processo di primo grado.
Nelle motivazioni della sentenza, depositate oggi, 9 giugno, i giudici lanciano anche una frecciatina alla procura: «Risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Vincenzo Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi a favore degli imputati». Armanna, ex manager di Eni licenziato dalla compagnia e, anzi, diventato un accusatore di quest’ultima, secondo il tribunale aveva l’intento «di ricattare i vertici Eni, lasciando chiaramente intendere a Piero Amara che le sue dichiarazioni accusatorie avrebbero potuto essere modulate da eventuali accordi, facendo un chiaro riferimento a Descalzi».
Con le sue dichiarazioni accusatorie Armanna intendeva ricattare i vertici di Eni
La corte critica i pm per non aver dato risalto a un video favorevole alla posizione degli imputati. Il tribunale «non condivide l’interpretazione banalizzante del documento» da parte della procura, perché il video – del 2014 – che registra un incontro tra Armanna e l’ex legale esterno di Eni, Piero Amara, «consente di apprezzare la volontà di Armanna di ricattare i vertici Eni, lasciando chiaramente intendere a Piero Amara che le sue dichiarazioni accusatorie avrebbero potuto essere modulate da eventuali accordi, facendo un chiaro riferimento a Descalzi» e ad altri dirigenti. I giudici del tribunale, inoltre, non condividono l’impostazione dei pm milanesi, secondo cui la successiva Armanna ritrattazione sia un «elemento a carico di Descalzi – il quale, seguendo la tesi dei pm -, avrebbe tentato di condizionare le dichiarazioni accusatorie di Armanna tramite Piero Amara e Claudio Granata». capo del personale di Eni.
C’è poi il caso del cosiddetto ‘falso Victor’, presunto ‘teste chiave’ che fu chiamato dai pm a confermare le accuse di Armanna: secondo i giudici di Milano, l’esito «del supplemento istruttorio» chiesto dalla procura «è stata l’imbarazzante audizione di un uomo giunto dalla Nigeria per smentire il contenuto di una missiva che lui stesso aveva sottoscritto solo alcuni giorni prima».