Il Pd ha un problema con le donne? Dal maschilismo al pink washing, cosa non funziona nella sinistra italiana
È il 2006 quando 13 personalità del mondo politico e culturale italiano furono incaricate, da Romano Prodi, della scrittura del manifesto del Partito democratico. Solo tre di loro – Rita Borsellino, Liliana Cavani e Donata Gottardi – erano donne. L’anno dopo, nasce il soggetto politico erede, delle esperienze dei Democratici di sinistra e della Margherita. Sono passati 15 anni da allora e alla segreteria del partito non si è mai insediata una donna: dieci leader, tra segretari e reggenti, tutti uomini. Lo scorso 14 marzo, per succedere a Nicola Zingaretti afflitto dalle lotte correntizie, atterra al Nazareno, con un volo da Parigi, Enrico Letta. «Apriamo il partito a giovani e donne», dice nel suo discorso di insediamento all’assemblea. A quella dichiarazione di intenti segue un’azione politica rapida e forte. Spazzati via i capigruppo di Camera e Senato – Graziano Delrio, a Montecitorio, lascia con meno resistenze di Andrea Marcucci, a Palazzo Madama – sostituiti da Debora Serracchiani e Simona Malpezzi. Lo young-pink-washing democratico ha inizio. È la seconda mossa, in realtà, che Letta fa in questo senso: a due settimane dalla sua elezione assembleare, nomina come vicesegretari Irene Tinagli e Peppe Provenzano, 46 anni lei e 39 anni lui. Economista e accademica, prima che politica, lei, e millennial – per un soffio – lui. La rivoluzione lettiana, donna e giovane, sembra procedere spedita. Poi, però, qualcosa si inceppa nel momento in cui bisogna tradurre la politica nazionale in chiave territoriale.
Elezioni comunali, nelle grandi città solo uomini over 40
Alle prossime elezioni comunali, si vota nelle più grandi città italiane. Torino, Milano, Bologna, Roma e Napoli, il prossimo autunno, sceglieranno i sindaci dell’era post-Covid, quelli che dovranno gestire dossier importanti, irrorati delle finanze del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il Pd di Letta arranca nella scelta dei suoi candidati da sostenere alle primarie del centrosinistra e alla corsa da sindaco. A Roma, il corteggiamento di Zingaretti non ha successo, e allora viene dato il via libera a Roberto Gualtieri. A Napoli, in un delicato equilibrio tra Dem e grillini, il nome su cui convergere è quello di Gaetano Manfredi. A Bologna, in contrapposizione alla renziana Isabella Conti, il Pd candida Matteo Lepore. A Milano, c’è poco da discutere sul sindaco uscente, Beppe Sala, che tra l’altro proprio nei giorni dell’insediamento di Letta al Nazareno ha deciso di mettere in soffitta il Pd e iscriversi ai Verdi europei. A Torino, infine, alle primarie del centrosinistra i Dem schierano due uomini: Stefano Lo Russo e Enzo Lavolta.
Cuperlo: «Bisogna fare passi avanti, con maggiore coerenza e coraggio»
Tutti, ma proprio tutti, uomini. E il più giovane di loro, Lepore, ha 41 anni. «Per onestà direi che in questa vicenda Letta c’entra quanto ciascuno di noi: quando ha preso in mano le redini del Pd quelle candidature erano in buona misura tutte in campo, o quasi. Dopodiché il problema esiste e investe nell’insieme il modo in cui facciamo vivere l’equilibrio di genere non come alibi, ma come tratto di una precisa cultura politica. E dunque è evidente che passi avanti vanno fatti e con maggiore coerenza e coraggio». A dirlo, a Open, è Gianni Cuperlo. Membro della direzione nazionale del Pd e storico esponente della sinistra – ultimo segretario della Federazione giovanile comunista italiana e componente della segreteria dei Ds – sostiene che il problema delle candidature tutte maschili non c’entri nulla con il tema del consenso: «Tendo a credere che buona parte del nostro elettorato – spiega – sia più avanti della classe dirigente della sinistra. Il punto non mi pare stia nella domanda, ma nell’offerta. C’è un ceto politico molto maschile, nel genere e nella mentalità, che rischia di essere una sorta di tappo verso l’emergere di energie e risorse mature. Penso alle donne, ma anche a tanti giovani di talento che hanno una passione enorme e trovano spesso porte sbarrate e capi bastone generosi a patto che quei giovani si mettano in fila senza nulla chiedere. Ecco, io vorrei da sinistra ribaltare queste logiche».
Cuperlo ripercorre la storia della classe dirigente italiana: «Andate a vedere la composizione della direzione del Pci della fine degli anni ‘40, ma lo stesso valeva per i democristiani o i socialisti. Conterete le donne sulle dita di mezza mano. Ma pensate anche a quando al Quirinale ha giurato la prima donna ministra della storia repubblicana, Tina Anselmi. E poi pensate a quando nel nostro Paese è stato abrogato il delitto d’onore con le relative attenuanti. Voglio dirvi che il problema non riguarda solo il centrosinistra, ma la storia della Nazione, i suoi ritardi culturali, politici, istituzionali. Poi però vi invito anche a rileggere l’articolo 3 della nostra Costituzione, laddove si dice che compito della Repubblica è rimuovere gli ostacoli che limitano “di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini”. Ecco quell’inciso “di fatto” fu merito di Teresa Mattei, comunista e la più giovane donna costituente. A conferma che il problema eravamo e siamo noi». Tornando al Partito democratico, il fatto che fatichi a emergere una leadership femminile è una questione di quote o di identità dei Dem? «Le quote sono un po’ ciò che l’Europa nel tempo è stata per la politica economica, e non solo: un vincolo esterno – conclude Cuperlo -. Hanno rappresentato una garanzia per la promozione di competenze e profili che, senza quelle regole, sarebbero rimasti esclusi ancora a lungo».
Simona Malpezzi e la questione della classe dirigente
Una delle protagoniste del nuovo corso che Letta ha cercato di imprimere al Pd è Simona Malpezzi, classe 1972. Ha lasciato il posto da sottosegretario ai Rapporti con il parlamento per ricoprire l’incarico di capogruppo al Senato. Al segretario riconosce «di aver posto il tema – della leadership femminile – e di aver dato un segnale di cambiamento». Ma a Open ammette che «non basta». Tuttavia, nel caso delle amministrative, afferma che «si tratta di territori che non solo hanno una loro autonomia, ma esprimono candidature frutto di percorsi». La senatrice non accetta il giudizio tranchant sul maschilismo del suo partito, nemmeno a livello locale: «Il Pd esprime tantissime amministratrici di qualità. Poi, è chiaro che esiste un problema oggettivo di condizioni che favoriscano la partecipazione femminile. A maggior ragione, il Pd deve lavorare per imporre un tema che esiste nella società. Il fatto che Letta abbia posto l’accento su una delle ragioni fondative del Pd è un fatto significativo che avvia un percorso».
Malpezzi sottolinea come il problema di una classe dirigente prettamente maschile sia trasversale in tutti i partiti, eppure «quando si verifica nel campo del centrosinistra, si avverte più cocente la ferita e il senso del tradimento nei confronti delle nostre radici e di una politica che ha sempre fatto del rispetto e dell’inclusione un tratto identitario». La senatrice la pensa come Cuperlo sulla maturità dei cittadini: «Credo che l’elettorato sia più pronto della classe dirigente. Nelle classifiche sulle discriminazioni di genere i punteggi dell’Italia sono inferiori a quelli della media europea, ma non nei settori espressione del potere decisionale, economico e politico. Questo significa che sono le classi dirigenti di tutti i settori a impedire che si realizzi una piena leadership femminile».
Le amministrative viste da Monica Cirinnà
La prima ad essersi candidata alle primarie romane del centrosinistra, quando ancora non erano state indette e al governo c’era ancora Giuseppe Conte, è una persona che conosce bene le dinamiche del Campidoglio. È stata eletta cinque volte consigliera comunale e poter fare la sindaca di Roma, aveva dichiarato, era «un sogno». La senatrice Monica Cirinnà, però, ha dovuto fare un passo indietro quando è stata ufficializzata la candidatura di Gualtieri. «Credo che l’interesse comune venga prima dei desideri personali – spiega a Open -. La mia decisione è stata mossa da questo: una scelta unitaria intorno alla figura di Roberto Gualtieri per rendere ancora più forte la comunità che si riconosce nel Partito democratico. Penso che tutti noi dobbiamo sentire la responsabilità di agire per realizzare quell’unità che il nostro popolo ci chiede. Anche se questo comporta un sacrificio individuale».
Non nasconde, però, che «il tema della parità di genere è importante e benissimo ha fatto Enrico Letta a porlo come suo primo atto da segretario, ma non facciamocene accecare. La scelta dei candidati e delle candidate vincenti per le elezioni amministrative è un processo ben più complesso di trovare un nome. Serve costruire condivisione per avere una coalizione solida e vincente, ascoltando i territori. E serve, certo, il protagonismo delle donne, che devono conquistarsi il loro spazio politico, senza aspettare di essere investite dagli uomini. Per questo dico che sì, una maggiore presenza femminile sarebbe stata un bel segnale».
Cirinnà sottolinea che «il tasso di affluenza al voto tra le donne è mediamente più basso che tra gli uomini. Questo significa che c’è una forte domanda di rappresentanza femminile e che c’è molto lavoro da fare ancora perché la nostra sia una democrazia davvero paritaria». La senatrice, tuttavia, ritiene che il Pd abbia già una forte declinazione al femminile, piuttosto non ravviso lo stesso impegno in altre forze politiche. «È l’intera società italiana che deve continuare a camminare sulla strada dei diritti. Tutti. E anche sulla strada delle pari opportunità, non retoriche e vuote, ma concrete ed effettive. Questo percorso deve coinvolgere e attraversare tutto il tessuto sociale e produttivo: i luoghi di lavoro pubblici e privati, il mondo economico e finanziario, della cultura e della ricerca. Se, negli ultimi anni, guardiamo alle manifestazioni di eccellenza e innovazione troviamo per lo più nomi femminili: Samantha Cristoforetti, Liliana Segre, Ilaria Capua. Figure che ispirano uomini e donne: segno che le cose stanno cambiando».
Giorgia Meloni emblema della parità di genere in politica?
In questo momento, non esiste una figura politica femminile che abbia la notorietà, il consenso e il potere di Giorgia Meloni in Italia. Dal Times al Financial Times, diversi giornali internazionali hanno incoronato la sua ascesa come leader della destra. Che Meloni sia riuscita a strappare alla sinistra, tramite il suo esempio, la battaglia per la parità di genere? «Fratelli d’Italia paladina dei diritti? Non scherziamo – sorride Cirinnà -. FdI esprime posizioni arretratissime sui diritti sociali e civili. Vogliamo parlare di temi quali il rispetto dell’altro e delle differenze, siano esse di genere, orientamento sessuale, identità di genere, colore della pelle, famiglia o religione? Basta vedere quali posizioni stanno esprimendo Giorgia Meloni e il suo partito, insieme alla Lega, sulla legge contro l’omolesbobitransfobia, la misoginia e l’abilismo. Il fatto che quel partito sia guidato da una donna non ha per niente scalfito le sue profonde radici culturali: quelle di una destra che guarda al passato. Come dicevo prima: non basta la figura di un/a leader a imbellettare una proposta politica che, invece, è fatta di atti e azioni concrete».
Anche Malpezzi non individua nella posizione di spicco di Meloni l’emblema della lotta per i diritti delle donne: «In realtà Fratelli d’Italia è un partito del leader che, in questo caso è una donna. È un partito personale che nasce dall’iniziativa di Giorgia Meloni ed è un caso isolato nel centrodestra». «La destra – chiosa invece Cuperlo – continua a dar voce a un liberismo dove i diritti di chi sta peggio restano in fondo alla fila. Quanto a Fratelli d’Italia, continuo a credere che ogni leadership risponde anche e soprattutto dei valori che esprime. Per quanto mi riguarda massimo rispetto verso Giorgia Meloni, e massima distanza dalla sua cultura politica e di governo».
Il Pd, in realtà, aveva tra i suoi ranghi una giovane donna in cui molti vedevano il futuro del partito. Si tratta di Elly Schlein che ha lasciato i Dem nel 2015 in dissenso con l’allora segretario Matteo Renzi. Nel 2020, alle elezioni regionali che hanno portato alla vittoria Stefano Bonaccini, ottiene 22.098 voti: è la candidata di lista con più preferenze personali in tutta la storia delle elezioni regionali in Emilia-Romagna. Viene riconosciuta dai più come la giovane leader donna più influente del centrosinistra, ma non sembra intenzionata a rientrare nel Pd, partito dove faticava a trovare spazio. «Non credo che Elly Schlein se ne sia andata via dal partito perché non trovava spazio in quanto donna – replica Malpezzi -. Penso che il Pd abbia tante donne giovani e capaci che possono ambire alla leadership».
Elly Schlein possibile futura leader del Pd?
Cuperlo, invece, preferisce non soffermarsi su una singola figura politica: «Ci sono donne di generazioni diverse che hanno esperienza e qualità. Non sta a me fare nomi, quello per cui mi batterò è che non si riproponga più l’utilizzo delle candidature femminili nelle liste come lasciapassare per promuovere uomini di corrente, come accaduto nelle liste del 2018». «Ho sempre apprezzato Elly Schlein, il suo lavoro e la sua passione – afferma Cirinnà -. E mi è dispiaciuto che abbia deciso di non portare il suo contributo nel Pd. Avrei lavorato molto volentieri al suo fianco e avrebbe trovato nel partito tante sensibilità vicine alla sua».
Che possa essere lei la prossima segretaria dei Dem, ruolo che Letta stesso – nel suo discorso di insediamento – ha auspicato sia ricoperto al più presto da una donna? O magari può essere Schlein la candidata di una federazione ampia, di centrosinistra, alle legislative del 2023? «C’è un discorso più ampio da fare: il fugace fascino dei partiti leaderistici, purtroppo ampiamente diffusa, ha messo troppo spesso le persone prima delle idee. È sulle idee che ci confronteremo, quando verrà il momento del congresso del Pd – conclude Cirinnà -. Solo allora. Non vedo perché pensare ora a chi debba succedere a un ottimo segretario con il quale c’è tanto lavoro da fare».
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