La Ue avvia due procedure di infrazione contro Polonia e Ungheria per discriminazioni della comunità Lgbtq+
La Commissione europea ha avviato due procedure di infrazione contro l’Ungheria e la Polonia per violazioni sull’uguaglianza e la tutela dei diritti fondamentali, in particolare nei confronti delle persone LGBTQ+. I casi aperti nei confronti di Budapest includono la nuova legge che vieta ai minori di 18 anni i contenuti che «promuovono» o «ritraggono» la cosiddetta «divergenza dall’identità personale corrispondente al sesso alla nascita, al cambiamento di sesso o all’omosessualità». Per quel che riguarda Varsavia, la Commissione ritiene che il governo non ha risposto in modo completo all’indagine sulla natura e l’impatto delle risoluzioni sulle «zone libere dal LGBTQ», adottate da una vasta quantità di regioni e comuni. Adesso Ungheria e Polonia hanno due mesi per rispondere alla Commissione. In caso contrario, Bruxelles può decidere di inviare loro un parere motivato, e in una fase successiva deferirli alla Corte di giustizia europea (ECJ).
Gergely Gulyas, capo di gabinetto del premier ungherese Viktor Orbán ha affermato che le argomentazioni di Bruxelles per avviare procedimenti legali sui diritti LGBTQ sono «assurde» e «forzate». La Commissione ha anche deferito l’Ungheria direttamente alla ECJ per «limitazione illegittima dell’accesso alla procedura di asilo». In questo caso la legge contestata a Budapest prevede che i profughi arrivati sul territorio ungherese dichiarino la volontà di chiedere asilo presso un’ambasciata dell’Ungheria al di fuori dell’Ue, un cavillo legale che Bruxelles considera illegittimo perché impedisce ai migranti di fare domanda di protezione internazionale sul posto.
La sfida della Corte costituzionale polacca alla Corte europea
Ma l’autorità dei giudici dell’Unione europea è contestata. Mercoledì la Corte costituzionale della Polonia ha stabilito che Varsavia non deve rispettare le decisioni della ECJ sulla sua riforma della giustizia, nello stesso giorno in cui i giudici dell’Ue ordinavano al governo polacco di sospendere l’applicazione delle disposizioni nazionali. La sentenza della ECJ chiude una battaglia di quasi sei anni su una riforma della giustizia lanciata dal governo del partito Legge e giustizia (PiS) polacco – alleato di Giorgia Meloni – ma apre una sfida all’ordinamento giuridico dell’Unione. I leader del PiS sostengono che l’Ue non abbia il diritto di intervenire sulle riforme della giustizia in Polonia, mentre i critici e le opposizioni sostengono che il governo vuole intimidire e limitare l’indipendenza dei giudici e che la sfida della Corte costituzionale polacca al sistema giuridico comunitario solleva interrogativi sul futuro della Polonia nell’Ue. «Il rifiuto di attuare le sentenze della ECJ è un chiaro passo verso l’uscita della Polonia dall’Unione. Temiamo che il governo polacco sia sulla via della Polexit», ha dichiarato il Partito popolare europeo in una nota ufficiale.
Se lo scontro arriva fino al Recovery Fund
Le controversie dell’Ue con Ungheria e Polonia potrebbero allargarsi al Recovery Fund e ai fondi del Bilancio pluriennale europeo. La Commissione quest’anno si è dotata di un nuovo potere che consente di «trattenere» l’erogazione di fondi se si ritiene che le violazioni dello stato di diritto ledano gli interessi finanziari dell’Ue. Bloccare del tutto i fondi è difficile, è un processo molto lungo e servono prove fattuali, ma per rallentarne l’erogazione e causare problemi ai governi è sufficiente la contestazione. Bruxelles è già impegnata in un piccolo braccio di ferro sul Recovery Plan di Budapest. Questa settimana l’approvazione del piano di rilancio ungherese è stata posticipata a data da destinarsi, la prima tranche di 7,2 miliardi di euro destinati all’Ungheria resta in sospeso finché non viene chiarito come funziona il meccanismo di controllo sull’utilizzo dei fondi e la regolarità degli appalti. Contestazioni dello stesso tipo potrebbero arrivare anche nei confronti della Polonia e del suo piano da 23,9 miliardi.
Dove si ferma l’ultimatum a Ungheria e Polonia
Il desiderio proibito dei più critici però è mettere in discussione l’appartenenza dell’Ungheria e della Polonia al progetto europeo, un ultimatum «dentro o fuori». Nell’ultimo Consiglio europeo il premier olandese Mark Rutte era profondamente indignato dalla legge anti-LGBTQ, e ha detto apertamente a Orbán che se non cambia registro l’Ungheria dovrebbe uscire dall’Ue. Ma la realtà delle cose è che i Trattati non prevedono l’espulsione di uno Stato membro, e i governi di Budapest e Varsavia lo sanno bene; è inutile speculare sull’efficacia delle pressioni per un’uscita volontaria di Polonia e Ungheria come fanno alcuni politici o commentatori. Nessuno nell’Ue può forzare l’uscita di questi due paesi dell’Europea orientale che hanno scoperto come tenere in ostaggio una Ue disunita, e come fare proseliti.
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