Tokyo 2020, le storie da copertina oltre lo sport: dai tormenti di Naomi Osaka alla nuova vita di Laurel Hubbard
I Giochi di Tokyo 2020 saranno scanditi dai timori per un’emergenza sanitaria eccezionale che ne intaccheranno l’atmosfera, non l’attesa che circonda gli atleti arrivati nella capitale giapponese con l’intento di scrivere una storia sportiva e personale degna di essere ricordata. Non necessariamente gli atleti e le atlete più forti in assoluto, anche se diversi nella lista sono tra favoriti nelle rispettive discipline: tanti lasceranno un segno anche per ciò che rappresentano. Di seguito le giovani stelle da seguire per queste Olimpiadi scelte da Open sulla base del talento e del background che portano con sé.
Naomi Osaka (Tennis – Giappone)
Ha cambiato le regole mettendo al centro la questione della salute mentale degli atleti, ultimo tabù del mondo sportivo che dipinge spesso gli sportivi come esseri infallibili e perfetti, esenti da problemi che invece vivono come chiunque altro. «Non c’è rispetto», aveva sentenziato la 23enne annunciando il ritiro dal Roland Garros nel maggio scorso. La tennista giapponese, numero 2 al mondo, si presenta nel Paese di origine scardinando anche un concetto culturale duro a morire nel Sol Levante: quello della razza pura. Nata a Tokyo da madre giapponese e padre haitiano, Leonard François, che le ha insegnato i fondamenti della disciplina da quando aveva tre anni, Osaka porta il cognome della madre per una legge che permette alle donne di dare il proprio cognome ai figli in caso di matrimonio con persone straniere. La tennista è cresciuta in Giappone in un contesto dove l’accettazione e l’integrazione dei gaijin, letteralmente le “persone esterne”, non esistono. La sua avventura olimpica, quindi, assume valenze socio-culturali oltre che sportive.
Nyjah Huston (Skateboarding – Usa)
Se c’è un atleta che può rappresentare lo skate all’esordio olimpico questo è l’americano Nyjah Huston. E lo è per una serie di motivi, anche economici, oltre che di talento. Il 26enne californiano è infatti lo skater più pagato nella storia delle disciplina: nel 2013, per esempio, ha ricevuto più premi per le sue vittorie di chiunque altro. Nel suo albo d’oro figurano ben 4 primi posti ai Mondiali su 6 edizioni nella categoria street, specialità nella quale detiene anche il record di medaglie negli X Games. L’impegno di Huston supera comunque il talento. Dal 2008 ha fondato con la sorella Kelle una organizzazione umanitaria, la Let It Flow, nata sulle proprie esperienza di volontariato a Porto Rico. Dal 2012 l’associazione si occupa a livello globale di fornire acqua potabile alle popolazioni in zone povere e a rischio siccità. L’ultimo progetto di Huston è stato messo in piedi in Etiopia.
Laurel Hubbard (Sollevamento pesi – Nuova Zelanda)
La sua presenza a Tokyo segna un passo importante: Hubbard sarà la prima atleta transgender nella storia dei Giochi. Il suo talento, inoltre, le permetterà di gareggiare anche per vincere dopo i successi ottenuti ai Mondiali del 2017 (argento) e ai Giochi del Pacifico del 2019 (oro). Ma la sua storia non è stata segnata solo dalla gloria sportiva. Hubbard ha iniziato a praticare la disciplina del sollevamento pesi per combattere la disforia di genere e a 23 si è ritirata per «le pressioni di adattarsi a un mondo che non era per tutti». A a 35 anni, nel 2012, riprende cominciando anche la terapia ormonale. Oggi non è “giovane”, per ciò che può significare, ma a 43 anni è evidente l’importanza sportiva e simbolica che Hubbard apporta. Nel suo Paese, infatti, la sua partecipazione ai Giochi è stata celebrata come segno importante per la lotta ai diritti civili, riaccendendo un dibattito decennale sull’apertura alle persone trans nelle discipline olimpiche. Nel suo caso il via libera del Cio arriva nel 2015, quando la commissione decreta il consenso a tutti gli atleti i cui livelli di testosterone erano sotto i 10 nanomoli per litro entro 12 mesi dalla competizione.
Janja Garnbret (Arrampicata – Slovenia)
Un’altra disciplina outsider alle Olimpiadi per un’atleta tra le più seguite al mondo. La slovena Janja Garnbret, 22 anni, si presenta come una delle più promettenti atlete della disciplina, se non del contesto olimpico in generale. L’arrampicatrice arriva a Tokyo forte del titolo mondiale conquistato nel 2019 ed è la favorita per la medaglia d’oro. I risultati nella stessa Coppa del mondo del 2019 la inseriscono tra le atlete più complete di questo sport: Garnbret ha risolto 74 punti su 78 nella classifica generale redatta in base a sei eventi svolte durante la manifestazione iridata.
Sky Brown (Skateboarding – Regno Unito)
Se Huston rappresenta un pò la quintessenza dello skate votato alle ricchezze, Sky Brown ne rappresenta il suo futuro. Anche lei è nata in Giappone, a Miyazaki, da madre giapponese e padre britannico ed è già una star. Con i genitori ha fatto sponda tra il Giappone e gli Stati Uniti, dove sembra che imparò a stare sulla tavola da una rampa in giardino. In generale, tutti i suoi familiari sono appassionati di skate, ma la strada per Tokyo non è stata semplice per la 13enne di passaporto britannico: cadendo da una rampa in allenamento si è rotta la mano sinistra e ha iniziato un periodo di riabilitazione molto difficile, anche considerato la sua età. Che tuttavia non le ha impedito di partecipare ai Giochi. Dove arriva come terza skater nel ranking mondiale per la specialità park.
Simone Manuel (Nuoto – Usa)
«Gli afroamericani non sanno nuotare perché hanno le ossa grandi». Questa è una della frasi razziste più diffuse sugli atleti di colore. È un pò la versione natatoria della massima cestistica per la quale «White men cant’t jump», cioè «I bianchi non saltano/schiacciano». Ecco, Simone Manuel ha ribaltato tutto. Lo ha fatto a partire dal 2016, quando ha conquistato l’oro ai Campionati nazionale negli Usa nei 100 metri stile libero, diventando la prima atleta afroamericana a ottenere un titolo nella storia del nuoto. Non è riuscita a difendere lo scettro nelle edizioni successive, ma la 24enne texana arriva a Tokyo scendendo in vasca nei 50 stile libero con niente da dimostrare e tutto da ottenere.
Hend Zaza (Ping Pong – Siria)
La più giovane atleta di Tokyo 2020 ha 12 anni e viene dalla Siria, dalla città dei mulini di Hama. Hend Zaza ha cominciato la sua strada olimpica nel febbraio scorso, quando si è qualificata per i Giochi a soli 11 anni seguendo le orme del fratello maggiore, giocatore anche lui. Ha iniziato a praticare nel 2014 e da quel momento la piccola racchetta del Ping Pong è diventata un mezzo per sfuggire alle bombe. In passato il suo allenatore ha sottolineato l’impossibilità di prendere parte a tornei internazionali per la situazione bellica nel suo Paese e alle problematiche oggettive, Zaza ha anche rischiato il ritiro per un infortunio alla caviglia causato dall’adattamento del suo corpo, abituato al cemento, ai pavimenti levigati. Nonostante l’infortunio ha battuto la libanese Mariana Sahakian, 42 anni, durante la qualificazione per Tokyo. «Dedico la vittoria a me e alla mia famiglia, il sogno ora è salire sul podio all’Olimpiade di Parigi», ha detto Zaza. Che intanto va in Giappone con la benedizione dei colleghi.
Simone Biles (Ginnastica – Usa)
A compiere imprese clamorose è già pronta, essendo l’unica donna nella storia a eseguire il doppio carpiato Yurchenko, uno degli esercizi più difficili in assoluto della ginnastica. Simone Biles è una delle più talentuose – e vincenti – ginnaste della recente storia americana, capace di restare sul tetto del mondo per 7 anni dal 2013 al 2019 (con tre vittorie consecutive). Oltre ai coefficienti fuori dal comune dietro i suoi esercizi, Simon Biles è stata inserita nel 2017 Time tra le 100 persone più influenti del mondo. Perché? La 24enne di Columbus, Ohio, ha rappresentato e continua a figurare come una delle personalità sportive più importanti per la lotta ai diritti civili degli afroamericani in Usa. Nelle sue esibizioni, utilizza brani hip hop e più volte a fine gara si è schierata contro le violenze su base razziale nel Paese, ricevendo il plauso di diverse personalità come Michelle Obama.
Frank Chamizo (Lotta – Italia)
Nato a Cuba nella città di Matanzas, cresce con la nonna in condizioni precarie, separato dai genitori che si dividevano tra Spagna e Usa. Il miglior lottatore del 2019 secondo la United World Wrestling si presenta a Tokyo forte di due ori mondiali e un bronzo agli ultimi Giochi di Rio. Frank Chamizo è maturo, forte di una storia in cui la lotta è metafora prima che disciplina. Il classe ’92 potrà consacrarsi definitivamente, essendo uno dei candidati a una medaglia azzurra nella categoria dei 74 chilogrammi ed è sicuro di sé. «L’oro la mia ragione di vita», ha detto.
Jessica Springsteen (Equitazione – Usa)
«Tryin’ to keep my temper down is like chasin’ wild horses», cantava il padre Bruce Springsteen. Sì, il padre di Jessica, The Boss. La figlia più rock di Tokyo 2020 parteciperà come cavallerizza alle Olimpiadi. Lei il temperamento lo ha messo tutto nell’equitazione, avvertendo suo papà di non parlare di lei nelle interviste. Un patto che segue anche lei, che non ha mai voluto aiuti da parte del padre, ottenendo il pass per i Giochi in sella al suo stallone di 12 anni, Don Juan Van De Donkehoeve. Insieme cercheranno l’impresa, inseguendo i versi realisti di paterna memoria che hanno raccontato quella campagna americana dove è cresciuta e si è innamorata dei cavalli. Piccola nota di gossip in salsa tricolore: è fidanzata con un cavaliere leccese, il 34enne Lorenzo De Luca.
Trayvon Jaquez Bromell (Atletica – Usa)
La sua storia sta tutta nei 173 centimetri per 70 chilogrammi che lo fanno volare. Cresciuto a St. Peterborough, Florida, con la madre single, Trayvon Bromell si è lasciato alle spalle quel «posto dove non c’è spazio per i sogni». E lo ha fatto sotto i 10 secondi diventando nel 2021 il primo atleta under 20 anni a riuscirci, segnando 9″80′ sul cronometro. La sua storia, come detto, è stata difficile: a 14 anni si è fratturato tutte e due le ginocchia, un avambraccio e un’anca. La sua carriera sembrava compromessa già dagli esordi fino a quando una lanciatrice del peso diabetica, Garlynn Boyd, non lo prende sotto la sua ala protettrice, facendogli capire che poteva arrivare dove è ora, cioè tra i più promettenti atleti della sua generazione.
Luigi Busà (Karate – Italia)
Non è giovane Luigi Busà, classe ’87, ma è al suo esordio olimpico, come la disciplina che rappresenta: il karate. Si trova nella lista di Open non solo perché è motivato a lasciare il segno in una arte marziale che nasce nel Paese ospitante, ma perché ai giovani ha lasciato un messaggio sul valore della disciplina nell’arte dei taka. «Ho una missione che va oltre alla medaglia d’oro», ha detto il karateka. «Ho intrapreso un percorso molto chiaro: in questo periodo va di moda l’Mma, quindi il trash talk. Si pensa che, per essere dei duri, devi farlo notare con le parole e l’atteggiamento da duro. C’è tanta insicurezza nel giovani, si aggrappano a questi personaggi molto aggressivi nel modo di fare e parlare. Ecco, io voglio portare un messaggio diverso ai giovani. Il vero forte, non ha bisogno di farlo notare con atteggiamento da sbruffone o a parole. Ci tengo a questa missione». Pensiamo che possa bastare.
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