Parlano i neodiplomati della Normale: «Dopo il discorso d’accusa ci hanno scritto in tantissimi. Andiamo avanti»
Valeria Spacciante, lo scorso 9 luglio, era sul palco della cerimonia dei diplomi della Scuola Normale. Un’eccellenza del mondo accademico, italiano e internazionale. La neodiplomata della classe di Lettere lanciava parole molto dure nei confronti del corpo docenti dell’istituzione pisana, a suo dire insensibile all’impegno civico e focalizzato quasi esclusivamente sulla produzione scientifica. «Questa disabitudine all’impegno che sempre di più ci viene insegnata è pericolosa». Un j’accuse condiviso, dietro al leggio, anche da Virginia Grossi e da Virginia Magnaghi, anche loro studentesse agli scampoli dell’esperienza nella Scuola. Abbiamo contattato Valeria su Instagram, per conoscere le origini di quel manifesto contro il sistema universitario italiano. «Se non vi dispiace preferisco la mail», ci ha risposto. Poi, in seconda battuta, Valeria ha posto una condizione prima di accettare l’intervista: «Voglio precisare che non si tratta solo di noi tre lettrici: siamo in realtà un gruppo di una dozzina di compagne e compagni d’anno che ha collaborato alla stesura del discorso. Vorremmo fare un’intervista corale, e per noi è importante che nell’articolo compaiano tutti i nomi». Compagne e compagni, fino all’ultimo. Come pattuito, ecco i nomi dei 13 diplomati della classe di Lettere che hanno scritto quel manifesto contro le ingiustizie del mondo accademico, in rigoroso ordine alfabetico. Paolo Bozzi, Alessandro Brizzi, Michele Gammella, Andrea Umberto Gritti, Virginia Grossi, Niccolò Izzi, Virginia Magnaghi, Lorenzo Maselli, Francesco Molinarolo, Cosimo Paravano, Valeria Spacciante, Eleonora Tioli, Giovanni Tonolo.
Come è nata l’idea di sfruttare lo spazio della cerimonia di consegna dei diplomi per sottolineare le criticità della Scuola?
«Non si tratta di un’idea nuova: da diversi anni il discorso dei diplomi è l’occasione, per le allieve e gli allievi che hanno concluso un percorso, di condividere osservazioni e criticità con le altre componenti della Scuola, a partire dal corpo docente. In un momento così importante, è giusto non fermarsi alla celebrazione, ma sforzarsi di dare qualcosa indietro. Per noi questo ha significato anzitutto riflettere, partendo dalle nostre esperienze e sensibilità, su un sistema universitario nel quale non ci riconosciamo. Sui temi che ci stanno a cuore e di cui abbiamo parlato, tante e tanti insistono da più tempo e molto meglio di noi. Il nostro gesto nasce dalla consapevolezza che avere un palco come la cerimonia dei diplomi è una tra le molte opportunità in più che abbiamo avuto. Ci è sembrato importante coglierla con la maggiore serietà possibile».
Quanto è stata condivisa l’iniziativa dai colleghi della Scuola?
«Il discorso è stato scritto da un gruppo di diplomate e diplomati della Classe di Lettere. In questo senso non rispecchia la voce del corpo studentesco, anche se ci sono arrivati molti messaggi di condivisione».
I docenti sapevano di cosa avreste parlato nel discorso? Quali sono state le loro reazioni dopo la cerimonia?
«Certamente non si aspettavano un discorso celebrativo, ma forse il livello sistemico delle riflessioni che abbiamo condiviso è stato qualcosa di nuovo. Non c’è ancora stato un confronto, ma sappiamo che alcune risposte sono state positive, altre decisamente negative».
E la Scuola, come l’ha presa?
«Le reazioni sono state diverse, tutte a livello informale: a parte la breve replica del Direttore dopo la cerimonia, non abbiamo ancora avuto una risposta “istituzionale”. Molte persone all’interno della Scuola ci hanno scritto per manifestare il loro appoggio o per chiedere un confronto. Sappiamo che il discorso ha suscitato un grande dibattito, e questo era in effetti uno dei nostri obiettivi. Speriamo che non ci si fermi alle reazioni a caldo, ma che nasca una discussione profonda sui temi sollevati».
Come mai il discorso ha destato tanto clamore da guadagnarsi le pagine di tutti i giornali italiani?
«Una diffusione di questa portata ha stupito noi per primi, soprattutto perché non abbiamo detto nulla di nuovo: i dati che abbiamo riportato e la situazione generale dell’università sono qualcosa di noto da tempo, che in molte e molti hanno chiarito prima e meglio di noi. A dispetto di quello che pensano alcuni, questi temi non hanno però l’importanza e la centralità che meritano nel dibattito pubblico e nel luogo che più avrebbe bisogno di una loro discussione: l’accademia. Col nostro gesto abbiamo cercato, per quanto potevamo, di dare una voce a quello che moltissime persone vivono e pensano, ed è forse per questo che il discorso è stato ascoltato e condiviso così tanto. Inoltre, probabilmente ha destato clamore il fatto che a criticare l’eccellenza fossimo proprio noi “eccellenti”».
Ci sono stati feedback da altri atenei?
«Sono state in moltissime e moltissimi a scrivere, da tutto il mondo della scuola e dell’università. Ci hanno raccontato le loro storie, hanno condiviso dubbi e speranze per un sistema più giusto, ma soprattutto ci hanno dimostrato quanto i problemi che abbiamo denunciato siano sentiti e condivisi. Un feedback del genere è più bello e più importante di qualsiasi risposta istituzionale».
È un’iniziativa che avrà un seguito o una denuncia che si è esaurita con la fine del vostro percorso alla Normale?
«Non essendo partiti con nessuna intenzione particolare, se non di condividere sinceramente e con chiarezza quello che pensiamo, stiamo ancora smaltendo lo stupore di una diffusione così grande. Ci stiamo confrontando su come dare il nostro contributo, ma intanto è positivo che l’attenzione ricada su questi temi. Certamente uno dei nostri obiettivi è fare tutto il possibile per portarli al centro del dibattito pubblico».
Avete tutti esperienza internazionale: le contraddizioni che avete riscontrato nel mondo accademico italiano sono presenti anche altrove?
«Chi di noi ha potuto trascorrere periodi all’estero, ha ritrovato in fondo le stesse contraddizioni. Di fronte a ciascun problema, in altri paesi abbiamo riscontrato una consapevolezza a volte maggiore, a volte minore. Sui problemi dell’ambiente accademico non possiamo ragionare solo in una prospettiva nazionale, ma certo il fatto che l’Italia spenda lo 0,3% del Pil nell’istruzione terziaria a fronte dello 0,7% della media europea non può che acuire tragicamente gli effetti del de-finanziamento dell’università in atto anche in altri paesi».
Tornando a uno dei punti centrali del vostro discorso, quello relativo alle disuguaglianze sociali nel mondo accademico, potete fate un esempio?
«Certamente tutte e tutti noi abbiamo avuto un percorso privilegiato. Le nostre storie sono però molto diverse, così come le provenienze e le opportunità che abbiamo avuto. Tra noi ci sono persone che non avrebbero potuto studiare lontano da casa, se non avessero vinto la borsa della Normale; altre che non avrebbero fatto le stesse scelte a cuor leggero. Ma oggi il sistema universitario (di cui anche la Scuola è parte) fa sempre meno per colmare le profonde differenze alla base, inasprendo le disuguaglianze già esistenti. Recentemente si è tornati a riflettere sul ruolo di “ascensore sociale” che i poli di eccellenza dovrebbero rappresentare e su come questo ascensore sia da tempo guasto: i dati esistono e devono far riflettere. Se ad andare avanti sono soltanto coloro che ne hanno in partenza le possibilità, la selezione del merito è una bugia. Non ci si può illudere che una qualsiasi selezione, anche quella della Normale, non parta con una ristretta minoranza estremamente avvantaggiata. Il contesto sociale, la situazione familiare, il luogo di provenienza, le scuole che si frequentano sono solo alcuni dei fattori di disuguaglianza. Gridare al merito di chi arriva primo è troppo comodo. Dovremmo invece impegnarci per rimuovere tutti quegli ostacoli; altrimenti la retorica del merito è solo uno strumento di autoassoluzione per un sistema profondamente ingiusto. L’esigenza che abbiamo sentito è proprio quella di non prestare i nostri volti a una retorica che nasconde dietro la lode dell’eccellenza la desolazione che c’è intorno, fingendo che il sistema funzioni».
Il divario di genere e il divario territoriale di cui parlate ha mai riguardato qualcuno di voi in prima persona? Se sì, come?
«Durante la cerimonia, è stata proiettata una cartina che segnava le nostre provenienze. Nella sua semplicità, il dato era chiarissimo: la disparità tra Nord e Sud, centro e periferia, tra i grandi centri sui principali assi viari e il resto del Paese, sono evidenti. Allo stesso modo, se si guardano i numeri, è evidente la disparità di genere, un dato sempre più problematico man mano che si sale nelle gerarchie accademiche. Siamo consapevoli che, come nel caso delle disuguaglianze sociali, si tratta di problemi sistemici che vanno combattuti a più livelli. Ma pensiamo anche che il mondo accademico, a cominciare dalla Scuola Normale, possa fare molto di più per diffondere la consapevolezza di questi problemi e per pensare a soluzioni non banali, che garantiscano opportunità più eque».
Il mondo accademico non è più in grado, dite, di formare dei cittadini, concentrandosi quasi esclusivamente sulla produzione scientifica e disabituando all’impegno. Eppure voi siete stati la dimostrazione che l’università, studenti e docenti, hanno un grande potenziale per assumere una posizione nel dibattito pubblico.
«Anche in questo siamo partiti dalla nostra esperienza di studentesse e studenti, in cui l’impegno civile è stato quasi sempre messo in secondo piano, se non direttamente avversato. Il nostro gruppo ha avuto la fortuna di trovarsi e di poter condividere un percorso di crescita personale, ancor prima che accademica. Il continuo dialogo tra noi, anche a partire da posizioni diverse, ci ha aiutato a non perdere questa dimensione, o almeno a provarci. Non sappiamo se con il nostro gesto abbiamo dimostrato qualcosa; certamente abbiamo chiesto qualcosa: un’università che insegni anche e soprattutto a riflettere e a esprimersi su quello che si ha intorno. Ci sono molti modi diversi per dare il proprio contributo; quello che ci sembra pericoloso è il ripiegamento su una dimensione autoreferenziale, che chiuda gli occhi di fronte a quello che succede fuori dal proprio studio».