Jacobs secondo Jacobs: la storia di un campione italiano raccontata da lui stesso
«Quando capisci come fare a vincere, la sconfitta inizia a sapere di fango, e l’ultima cosa che vorresti è doverne ingoiare qualche altra cucchiaiata». Era il 4 giugno quando Marcell Jacobs si raccontava su The owl post a metà tra poesia e flusso di coscienza, con un’intensità da brividi. Per Tokyo mancava ormai poco, l’idea di tornarci con una medaglia al collo come il più veloce di tutti si nascondeva ancora tra i suoi tormenti e le insicurezze che il campione azzurro non nasconde fino all’ultimo. Sin da quando ha raggiunto alti livelli nell’atletica, Jacobs racconta: «non riuscivo mai a sentirmi del tutto coinvolto in quello che facevo. A 17, 18 anni, anche se vedevo gli altri andare più forte di me, non mi scattava quel desiderio brucante di vedere per davvero quattro valessi. E continuavo a fare le cose a metà». Lo chiamavano «lo scavezzacollo» una volta diventato professionista: «perché ero sempre quello pronto a sdrammatizzare e a riderci sopra. Ma dietro le battute, l’ironia, dietro le cazzate nascondevo tutte le mie insicurezze, che per anni mi hanno incollato i piedi alla pista, aiutandomi nel giocare a nascondino con le mie questioni irrisolte».
Jacobs e i suoi tormenti
Tra i tormenti di Jacobs non c’era solo il rapporto complicato con suo padre, recuperato solo di recente. Il colpo duro l’ha subito come tutti anche per colpa della pandemia di Coronavirus, con il lockdown che: «mi ha fatto comprendere tutta la fragilità del momento e tutta l’importanza di ritrovare le mie origini, nella loro completezza». È cominciato così un percorso «non da solo» dice Jacobs ma nel quale «ho fatto io il primo passo, per imparare a volermi bene per come sono fatto e per capire da dove vengo davvero». Fino a raggiungere una certezza che gli ha permessi di liberarsi: «Non sono amato e non amo in misura direttamente proporzionale a quello che faccio. Ma sono un uomo, e basta questo».
Prendersi sul serio con leggerezza
Così è arrivata la svolta appena un anno fa, quando avrebbe dovuto già essere a Tokyo ma – forse per fortuna – è dovuto restare inchiodato in Italia per l’emergenza sanitaria ancora in corso. «Quando ho smesso di avere paura di prendermi sul serio in pista ho iniziato a sentirmi leggero come non mi ero mai sentito prima». Con quella leggerezza d’animo lo abbiamo visto fare cose incredibili in pista a Tokyo, migliorando i suoi tempi in ogni gara. Ha stracciato record, ha affiancato mostri sacri come Carl Lewis e Usain Bolt. In testa un’idea precisa: «Oggi sono una persona diversa, che quando è arrivata sui blocchi di Torun con il miglior crono europeo e il terzo crono mondiale, non ha sentito paura. Non ha sentito freddo, né caldo. Non ha sentito pressione, né fretta. Ma soltanto voglia di correre veloce, di divertirsi e di fare qualcosa di grande».
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