La caduta dell’Afghanistan: le ragioni dell’autogol dell’Occidente che 20 anni dopo restituisce il Paese ai talebani
L’avanzata dei talebani in Afghanistan procede di giorno in giorno a un ritmo inarrestabile. Dopo aver annunciato la conquista di Kandahar, la seconda città più importante del paese, e di Herat, capoluogo dell’omonima provincia nordoccidentale in cui facevano base le forze armate italiane; i portavoce dei talebani rivendicano anche il controllo della strategica Ghazni, città da cui è possibile interrompere i collegamenti tra le province meridionali e la capitale Kabul. La presa della capitale è questione di giorni, neanche di settimane, al punto che gli Stati Uniti e il Regno Unito stanno inviando rispettivamente 3.000 e 600 soldati per evacuare il proprio personale diplomatico a Kabul, insieme agli afghani (interpreti e consulenti) che hanno lavorato con loro.
L’operazione italiana
Anche l’Italia sta preparando un’operazione per evacuare il personale afghano che ha collaborato con la missione italiana, ma secondo La Repubblica a causa dello sviluppo così rapido degli eventi l’operazione “Aquila” organizzata dai ministeri della Difesa e degli Esteri è in seria difficoltà, con il rischio di non portarla a compimento. Un problema che riguarda tutto il personale che dal novembre del 2001 in poi ha lavorato con i diversi contingenti occidentali che si sono uniti alla missione statunitense. La caduta dell’Afghanistan infatti non riguarda solo gli Usa: nel Paese c’era praticamente tutto l’Occidente. La città di Herat è caduta in un attimo, dopo quasi 20 anni di rotazione di contingenti militari italiani che hanno operato di continuo nella provincia. A inizio giugno in un hangar dell’aeroporto di Herat c’è stata la cerimonia di fine missione di fronte al ministro della difesa Lorenzo Guerini, ma – secondo il Corriere della Sera – i talebani erano già appostati dietro le colline intorno alla città, pronti ad attaccare.
L’errore di calcolo americano
Dopo 20 anni di coinvolgimento militare degli Usa e della Nato, oltre 3.500 morti della coalizione (53 italiani) e miliardi di dollari spesi, l’Afghanistan rischia di tornare al punto di partenza. Tutti i modesti ma significativi risultati ottenuti in questi due decenni – in particolare le opportunità di studiare e lavorare per i giovani e le donne – sono in pericolo. L’annuncio di aprile del presidente Biden del ritiro entro settembre di tutte le truppe statunitensi aveva una logica politica interna. Ma oggi sembra sempre di più un tragico errore di calcolo. Dopo il 2015 il numero di vittime tra i soldati statunitensi era rimasto relativamente basso, e anche prima che iniziassero i colloqui diretti tra Usa e talebani (nel 2018) i costi della missione si erano ridotti. Ciò nonostante, il sostegno delle truppe Usa e della Nato consentiva all’esercito afghano di preservare il Paese dal cadere nuovamente nel caos. Il governo aveva il controllo delle città più importanti, e grazie alla presenza occidentale i talebani non erano in grado di attaccarle e prenderne il controllo.
La vita nelle città conquistate
La partenza della coalizione internazionale invece ha avuto un impatto diretto sull’esercito afgano: il ritiro delle forze armate occidentali è andato in parallelo con il ritiro degli appaltatori privati, compromettendo la capacità di manutenzione dei mezzi e delle attrezzature in dotazione a polizia e soldati afgani. Le forze di sicurezza afghane sono state abbandonate al loro destino, ed è per questo che l’avanzata dei talebani non sta praticamente incontrando resistenza. Intanto, decine di migliaia di civili stanno fuggendo dal Paese, e dalle città e villaggi occupati arrivano racconti di miliziani talebani che impongono il burqa, chiudono le scuole per le ragazze e chiedono i nomi delle donne da dare in spose ai loro combattenti.
La partita internazionale
Secondo una fonte dell’agenzia Afp, i negoziatori del governo del presidente Ashraf Ghani che partecipano ai colloqui in Qatar hanno proposto ai talebani la condivisione del potere in cambio della fine delle violenze. Potenze regionali come Iran, Pakistan, Russia, India, Cina e Arabia Saudita non hanno interesse che l’Afghanistan diventi un buco nero, e potrebbero riuscire a collaborare per spingere i talebani a fare concessioni in cambio di un riconoscimento politico nelle istituzioni del governo afghano. Il mese scorso il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha ospitato una delegazione talebana, esortando il gruppo a costruire un sistema politico adeguato. La Russia ha addirittura definito i talebani «interlocutori ragionevoli». Alcuni esponenti talebani forse non desiderano diventare – di nuovo – uno stato completamente isolato dal mondo e riconoscono che per governare con successo hanno bisogno di una legittimità internazionale, ma per ora è poco più di un auspicio senza riscontri nella realtà, i fatti sul terreno raccontano solo un trionfo dei talebani.
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