Possiamo davvero fidarci della svolta «moderata» dei nuovi talebani?
«Lentalmente, gradualmente il mondo vedrà i nostri leader. Non ci sarà nessun segreto». Questo ha detto oggi a Reuters un funzionario dei talebani che però, ironia della sorte, ha parlato con l’agenzia di stampa a condizione di anonimato. E mentre il velo cala sui nuovi leader del movimento islamico che in dieci giorni si è preso Kabul e l’Afghanistan il mondo si interroga: chi sono e cosa vogliono i nuovi talebani? Di certo c’è che il gruppo ha imparato la lezione del 2001, visto che durante la conferenza stampa di ieri il portavoce Zabihullah Mujaid ha affermato che si impegneranno per i diritti delle donne «all’interno della Sharia. Lavoreranno fianco a fianco con noi. Non ci saranno discriminazioni». Ma il sospetto che cova è che le dichiarazioni ufficiali siano una recita.
Chi sono i nuovi talebani
Una recita a uso e consumo dell’Occidente, per essere precisi. Che permetta loro di guadagnare tempo, consolidare il potere in Afghanistan per poi tornare a reprimere la popolazione e a tenere bordone al terrorismo e ad Al Qaeda. «Nel loro nucleo – la sua ideologia, il modo in cui vede l’Islam, il modo in cui pretendono l’imposizione della legge religiosa sulla società – i talebani non sono fondamentalmente cambiati come movimento», ha detto a Vox Vali R. Nasr, professore di studi mediorientali e affari internazionali alla Johns Hopkins University. Nei cinque anni in cui hanno governato l’Afghanistan gli “studenti di religione” guidati dal Mullah Muhammad Omar non hanno mai avuto il pieno controllo del paese. Ma dove lo hanno avuto hanno imposto un rigido fondamentalismo di stampo sunnita che ha brutalmente oppresso molti segmenti della popolazione, in particolare le donne a cui è stato impedito di frequentare le scuole e di lavorare. Hanno perseguitato le minoranze, in particolare gli sciiti, e dato rifugio ad Al Qaeda e al suo leader Osama Bin Laden.
Dopo la sconfitta i capi sono fuggiti ma il gruppo non si è sciolto. Hanno invece cominciato a riorganizzarsi per insorgere contro il governo appoggiato dagli Stati Uniti. E sono cambiati. Sono diventati più bravi in battaglia, più esperti nel pianificare con cura gli attacchi, più capaci di coordinamento e nel raccogliere le informazioni. Soprattutto: sono diventati più ricchi. Nel 2020, racconta oggi Il Foglio, hanno avuto entrate per 1,6 miliardi di dollari. La fetta più grande è arrivata dal traffico di droga, di cui controllano l’intera filiera trattenendo un 10% per proteggere i trafficanti. Poi c’è il “pizzo” alle aziende che sfruttano le miniere del paese. E anche le speculazioni immobiliari e azionarie in cui hanno investito i fondi in questi anni. Infine, le donazioni: 600 milioni di dollari l’anno dalla beneficenza mediorientale. Ma i talebani sono diventati anche più pragmatici, come spiega ancora Nasr: sono riusciti a riprendersi rapidamente l’Afghanistan quasi senza sparare un colpo perché hanno stretto accordi con molti dei funzionari locali. Scendendo a patti con i capitribù invece di sparare e uccidere. Una lezione che hanno imparato dal passato, come ha spiegato sempre a Vox Afandyar Mir, analista sull’Afghanistan: «Sentivano in modo molto forte il senso dell’umiliazione dopo la sconfitta subita dagli Stati Uniti. Sono quelle cicatrici a guidare le decisioni di oggi».
La lezione dell’Occidente
Di certo, spiega oggi il Corriere della Sera, i mullah hanno imparato la lezione dell’11 settembre. E hanno capito di aver perso l’Emirato per colpa della decisione di dare ospitalità a Osama Bin Laden. Ma soprattutto, hanno imparato la lezione dell’Occidente. Lorenzo Cremonesi oggi ricorda che negli anni Novanta gli inviati a Kabul venivano arrestati dalle pattuglie della moralità che vietavano a tutti di fare foto in nome di una rigorosa interpretazione del Corano. Adesso i loro combattenti si scambiano video sui cellulari e alla conferenza stampa di ieri erano ben contenti di farsi riprendere. Quando sono arrivati al potere i talebani promettevano di porre fine alla frammentazione della guerra civile interna. Sembravano uomini primitivi con le loro Honda 125 e il Kalashnikov, imponevano il burqa, amputavano gli arti ai ladri, punivano l’adulterio con la lapidazione. E impiccavano in piazza.
Oggi, spiega ancora il quotidiano, a guidarli è il 61enne Hibatullah Akhundzada, ex capo delle Corti islamiche esperto in legge religiosa. E cresce la possibilità che alla presidenza del loro nuovo governo sia nominato Baradar, che ha negoziato gli accordi di Doha con gli americani. Mentre poco o nulla si conosce dei loro equilibri interni e quale sia il loro atteggiamento nei confronti di Isis o di al Qaeda. Tanto che, conclude Cremonesi, potremmo assistere presto al braccio di ferro sul tema tra radicali pan-islamici e nazionalisti afganocentrici. Proprio come era avvenuto nei confronti di Bin Laden alla vigilia degli attentati dell’11 settembre 2001.
Quello che dicono e quello che fanno gli “studenti di religione”
Ma, sostiene ancora il sito americano Vox, ci sono molte ragioni per dubitare che Baradar e la leadership politica dei talebani diventino improvvisamente disponibili a permettere alle donne di lavorare o ricoprire cariche nel governo. A giugno, Baradar aveva affermato che le donne e le minoranze sarebbero state protette sulla base della «gloriosa religione dell’Islam». Ma secondo Mona Tajali, professoressa dell’Agnes Scott College e membro di “Women Living Under Muslim Laws”, nessuno sa cosa significhi di preciso la frase: «Noi che lavoriamo sui diritti delle donne nel mondo musulmano sappiamo che questa frase è fondamentalmente un segnale di avvertimento.
Secondo Mir «c’è un divario tra quello che dicono e quello che fanno». Ovvero, «vogliono blandire la comunità internazionale con parole educate, dando l’impressione di essere aperti alla politica. Ma alla fine, rimangono una macchina militare che non è disposta a scendere a compromessi». D’altro canto, perché dovrebbero? Hanno appena riconquistato il “loro” paese senza sparare un colpo. E nel frattempo hanno stretto alleanze che potrebbero consentire loro di rimanere saldi al potere e consolidarlo, senza commettere gli errori della volta scorsa. Ma la Storia, che insegna ma non ha allievi, ci ricorda sempre che conquistare un paese è facile. Governarlo è tutta un’altra faccenda.