Quale accoglienza per i collaboratori afgani in Italia? Il caso di “Marco” e la cognata incinta sistemati tra muffa e sporcizia
«Chi lavora con l’Italia non viene abbandonato», queste le parole del Ministro della Difesa Lorenzo Guerini rivolte ai collaboratori delle nostre Forze Armate in Afghanistan. Una promessa, fatta a oltre 270 civili durante la sua visita di giugno a Herat, che ha permesso a circa una quarantina di interpreti di atterrare a Roma ed essere ospitati inizialmente a Cosenza per il periodo di quarantena. La palla passa al Ministero dell’Interno per il successivo inserimento nella rete di accoglienza e integrazione, ma sembra che non tutti stiano ricevendo lo stesso trattamento. Sabato 21 agosto mattina, in centro a Udine, incontriamo l’ex sottufficiale degli alpini Francesco Fontanini con due missioni in Afghanistan alle spalle. Parliamo della sua esperienza, ma i pensieri sono rivolti soprattutto ai suoi collaboratori afgani, alcuni dei quali ancora oggi bloccati o in attesa di partire dall’ormai tristemente noto aeroporto Hamid Karzai di Kabul. Ci racconta di “Marco” e della sua famiglia, arrivata in Italia con uno dei primi voli militari a Roma e ora ospite in una località del centro Italia insieme al fratello e la moglie di quest’ultimo, ormai prossima a partorire. Una volta entrati in contatto, ci mostra le foto del loro alloggio e rimaniamo senza parole.
Non possiamo rivelare l’identità dell’interprete per proteggere la sua famiglia. Abbiamo concordato di chiamarlo “Marco”, nome di fantasia per chi ha lavorato 15 anni al servizio del nostro Paese in Medio Oriente. Non è chiaro a molti cosa comporti collaborare con gli stranieri a Herat, “Marco” ha rischiato di morire durante una missione del 2009 dove il contingente italiano cadde in un’imboscata orchestrata dai talebani. Non è stata la prima e unica volta, ma il pericolo non riguardava soltanto le missioni. Non poteva usare i mezzi pubblici per andare alla base, alcuni interpreti prendevano dei “taxi” dirigendosi nella zona industriale adiacente per proseguire a piedi cercando di non dare troppo nell’occhio. Rapporti sociali? Inutile discuterne, “Marco” e i suoi colleghi dovevano tenere il più possibile segreto il loro lavoro, il rischio di perdere la vita era concreto 24 ore su 24, tutti i giorni della settimana.
“Marco” e suo fratello hanno sacrificato i migliori anni della loro vita per il contingente italiano, rinunciando a una vita normale, possibilmente lontano dalle famiglie. Le promesse del Ministro Guerini avevano riacceso le loro speranze di poter ricominciare da capo al sicuro in Italia. Dopo i giorni di quarantena a Cosenza si aspettavano di essere gestiti dal Sistema Accoglienza Integrazione (S.A.I.), ma sono stati trattati come un qualunque altro richiedente asilo finendo nel sistema dei Centri Accoglienza e Servizi (C.A.S.). A differenza di molti dei loro colleghi, ubicati in ottime strutture dislocate in altre regioni italiane, qualcosa è andato storto. Il responsabile del centro non sarebbe stato informato della presenza di una donna incinta e hanno considerato tutti come un unico nucleo familiare, contrariamente alla loro assegnazione. Così si sono ritrovati a dover condividere una piccola abitazione composta da una camera da letto e una cucina che attualmente viene usata da “Marco” per dormire in un letto singolo circondato dalle valigie.
A breve saranno in quattro, ma non sarà possibile per loro continuare a vivere in quelle condizioni soprattutto con la presenza di un neonato che necessita di un ambiente salubre. Senza contare i mobili vecchi e malandati, alcuni danneggiati, e il fatto che l’unico bagno è accessibile solo entrando dalla camera da letto, c’è anche il problema dei muri fatiscenti e della presenza della muffa.
Sono grati al Governo italiano per averli tratti in salvo dal loro Paese oggi in mano dei talebani, ma il morale è basso e sono molto preoccupati. Il luogo dove sono ospitati è lontano dall’ospedale, per le visite necessarie in vista dell’imminente parto bisogna percorrere parecchia strada, inoltre si sentono isolati e abbandonati dalla stessa comunità italiana. Vogliono integrarsi, ricevere al più presto documenti come il permesso di soggiorno elettronico e la tessera sanitaria per poi cercarsi un lavoro.
I loro colleghi afgani, giunti nello stesso volo a giugno, sono dignitosamente ospitati in altri centri nel Nord Italia come quello di Varese dove risulterebbero disponibili dei posti. “Marco” ha presentato formale richiesta (in inglese e in italiano) per essere trasferito insieme ai suoi cari in quella struttura, ma da inizio agosto ad oggi non ha ricevuto alcuna risposta, ufficiale o informale che sia.
Dopo qualche ora di colloquio con “Marco”, abbiamo deciso di rendere pubblica la loro storia affinché nessun altro degli esuli afgani si ritrovi in una situazione simile, ma soprattutto per dare in tempi brevi a una donna la speranza e la possibilità di partorire in tranquillità, garantendo a lei e al prossimo arrivato tutto ciò di cui hanno bisogno. Abbiamo scritto anche al Ministero dell’Interno, rivolgendoci alla ministra Lamorgese attraverso il suo Portavoce, sperando di ottenere una buona notizia per questi servitori dello Stato.
Per chi ha fretta:
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