Direttiva Bolkestein: così le spiagge italiane scatenano la rissa nel governo Draghi
Come una nuvola, l’istituto della procedura d’infrazione europea fa ombra sulle spiagge italiane. Non sono più baciati dal sole gli imprenditori balneari del Belpaese, signori del diritto quesito, che da decenni usano e sfruttano il demanio per i propri profitti. I gestori di lidi che si mangiano interi tratti di coste sabbiose, i titolari di ristoranti a strapiombo sulle scogliere e le categorie che li rappresentano sono enormi bacini di voti: portano consenso, portano soldi alle campagne elettorali dei politici nostrani. I quali, da anni, scelgono di non scegliere e prorogano le concessioni delle spiagge. L’ultimo rinvio, del 2018, ha allungato fino al 2033 – di altri 15 anni – la validità dei contratti tra Stato e privati cittadini, che si sono conquistati un pezzo di costa senza mai partecipare a una vera e propria gara. Ma adesso a Palazzo Chigi c’è un inquilino che non è diretta emanazione del consenso della popolazione. Altresì i suoi ministri – quelli che non sono stati nominati su indicazione dei partiti – non devono mantenere un equilibrio tra elettorato, sezioni locali dei partiti, palazzi romani. Il consiglio dei ministri ha una serie di battitori liberi pronti a supportare Mario Draghi: l’intenzione è di consegnare a Bruxelles, entro la fine di settembre, il decreto Concorrenza. E, al suo interno, provare a risolvere una volta per tutte il problema della privatizzazione del litorale italiano.
La direttiva Bolkestein e la procedura di infrazione
La direttiva 2006/123/CE – più conosciuta con il nome del commissario alla Concorrenza, Frits Bolkestein, approvata durante la commissione Prodi – è una norma approvata in sede comunitaria nel 2006 e recepita quattro anni più tardi dall’Italia. Il suo scopo è quello di garantire la parità di accesso ai mercati degli Stati membri a tutti i professionisti e alle imprese che operano nell’Unione europea. Nel caso specifico delle concessioni, ad esempio, la direttiva prevede che i servizi pubblici possano essere affidati ai privati solo attraverso gare pubbliche e aperte a tutti i cittadini europei. Prima che il governo Conte uno firmasse la proroga di 15 anni, era previsto che entro il 31 maggio 2018 l’Italia rimettesse a bando le concessioni rilasciate dagli enti locali. Il 3 dicembre 2020, la Commissione europea ha avviato l’iter della procedura di infrazione – attraverso l’invio al governo di una lettera di costituzione in mora – ricordando che «gli Stati membri sono tenuti a garantire che le autorizzazioni, il cui numero è limitato per via della scarsità delle risorse naturali – ad esempio le spiagge -, siano rilasciate per un periodo limitato e mediante una procedura di selezione aperta, pubblica e basata su criteri non discriminatori, trasparenti e oggettivi».
La questione politica e la ricerca del compromesso
A riaccendere il dibattito dopo l’insediamento del governo Draghi è stata l’Antitrust che, lo scorso marzo, ha inviato una segnalazione sollecitando la revisione del regime concessorio vigente, il quale si basa su una proroga di 15 anni. Il Garante della concorrenza, Roberto Rustichelli, ha chiesto al primo ministro la «disapplicazione delle disposizioni nazionali – che – hanno reso il settore delle concessioni impenetrabile all’applicazione dei principi della libera concorrenza». Se appare improbabile l’istituzione delle gare pubbliche entro la fine del 2021, come reclamato dall’Antitrust, Draghi starebbe lavorando al compromesso con la Lega, la forza di maggioranza più ostile alla messa in gara delle concessioni. Fonti di Palazzo Chigi dicono che sono allo studio deroghe per i piccoli concessionari, con clausole di tutela sociale, e la previsione di corsie preferenziali per chi detiene le licenze da molto tempo. Senz’altro, però, non è stata accolta la richiesta del Carroccio di posticipare la discussione dopo le amministrative: Matteo Salvini teme di perdere ulteriore terreno sulla rivale interna al centrodestra, Giorgia Meloni, facendo parte di un governo che disattende le velleità nazionaliste che hanno portato la Lega a superare il 30% alle scorse elezioni europee.
Per Draghi, tuttavia, è una questione che non si può rimandare: il tema delle concessioni dovrebbe rientrare nella riforma della concorrenza, promessa a Bruxelles entro lo scorso luglio e la cui data di definizione è stata già prorogata a fine settembre. Già nel Consiglio dei ministri di giovedì 16 settembre, dunque, potrebbe essere avviata la discussione riguardante le concessioni demaniali. Mentre sarebbe stata stralciata, al momento, dalla bozza del decreto Concorrenza, la postilla – inserita da un funzionario di Chigi – che metteva a gara le concessioni balneari. «La Lega è da sempre e per sempre contro la svendita delle spiagge, delle concessioni e del mare italiano, come vorrebbe imporre Bruxelles. Se qualche ministro Pd ci riproverà, la Lega si opporrà, ovunque e comunque. No alla Bolkestein, sì al lavoro», ha dichiarato il segretario del Carroccio. I Dem, tuttavia, si sono smarcati dalle accuse: «Credo sia opportuno fare un po’ di chiarezza – ha affermato il deputato Umberto Buratti – sulle voci che si rincorrono in queste ore sull’ipotesi da parte del governo di inserire la riforma del demanio marittimo nel decreto concorrenza, e che questa decisione sia stata assunta dal sottosegretario Vincenzo Amendola. Ebbene, questo non è vero».
La manina di Palazzo Chigi
Anche Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, è intervenuto con durezza: «Una cosa è certa. In nessuna legge sulla concorrenza saranno introdotte norme ostili alle imprese balneari e al commercio. Sono state approvate norme chiare. Il contenzioso con l’Europa non è ancora stato formalizzato e si discuterà, se mai se ne discuterà, in lustri futuri. Non c’è nessuna necessità di varare norme che in parlamento verrebbero appallottolate come carta straccia e buttate nei cestini. Se qualche tecnico di retrobottega dovesse assumere iniziative che non gli competono, se ne andrà a casa. Lo diciamo alle tecno-strutture anche di Palazzo Chigi e penso a qualche professore-consulente che non conosce il Paese reale e prima con gli editoriali, oggi con le provocazioni, vorrebbe mettere in crisi i settori produttivi. La Bolkestein va superata, le imprese del mondo balneare, del turismo e del commercio vanno tutelate e quindi non c’è nessun pericolo che vengano inserite norme che nessuno scriverà. E i tecnici eseguano gli ordini, non prendano decisioni che competono alla politica. Forza Italia in queste ore è stata chiarissima e quindi non ci sarà nessuna norma ostile alle imprese. Qualche professore riprenda a scrivere articoli, che peraltro non meritano nemmeno la lettura».
Quanto pagano di “affitto” allo Stato i gestori degli stabilimenti balneari
L’Autorità garante della concorrenza e del mercato, il 29 marzo 2021, ha pubblicato un report sullo stato delle concessioni demaniali marittime. In totale, sono 29.693 i tratti di costa assegnati ai privati. Di questi, 21.581 sono stati concessi per un canone annuale inferiore a 2.500 euro. Una cifra irrisoria rispetto ai 15 miliardi di euro annui di affari stimati – dalla società di consulenza Nomisma – per gli stabilimenti balneari. Lo Stato italiano, a fronte di questo enorme giro di denaro, incassa dai canoni concessori soltanto 115 milioni di euro annui. Ed è proprio questa rendita di posizione degli imprenditori del settore – i quali vedono le proprie concessioni rinnovarsi automaticamente da decenni – che la Commissione europea cerca di scardinare. Un esempio dello squilibrio tra incassi dei privati e ritorno all’erario arriva dal comune di Arzachena, piena Costa Smeralda, Sardegna.
Le 59 concessioni balneari date dall’amministrazione nel 2020 hanno portato in totale nelle casse comunali la cifra di 19mila euro, poco più di 320 euro annuali per ciascuno stabilimento. A fronte di questa spesa, solo un ombrellone con due lettini all’Hotel Romazzino, lido che insiste sul territorio comunale, costa 400 euro. Al giorno. «Io credo che se lo Stato mettesse due omini a controllare le metrature degli stabilimenti balneari e facesse un prezzo equo incasserebbe molti, molti soldi». A dirlo è stato Flavio Briatore, imprenditore del settore, consapevole che a fronte di un canone di concessione da 17.619 euro versato allo Stato per il suo Twiga Beach Club, nel 2020, ha avuto un giro d’affari da quattro milioni di euro.
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