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Roberto Saviano e la sua vita con la scorta: «Sarebbe stato meglio se mi avessero ammazzato»

30 Settembre 2021 - 05:40 Redazione
roberto saviano cutro meloni salvini piantedosi
roberto saviano cutro meloni salvini piantedosi
Lo scrittore racconta la sua vita inscatolata a 26 anni dopo le minacce dei boss: «Ora se potessi chiederei solo di camminare libero. Null’altro»

Dopo la pubblicazione delle motivazioni delle condanne al boss Bidognetti e al suo legale, Roberto Saviano racconta oggi in un articolo sul Corriere della Sera la sua vita con la scorta, cominciata all’età di 26 anni. «Sarebbe forse stato meglio se mi avessero ammazzato», scrive.

«L’ho pensato, lo penso ancora. Sono ancora in tempo risponderebbe qualcuno. Ma chi te’ pens, i soliti ne farebbero eco. Nemmeno riesco più a ricordare? Avevo 26 anni e ora ne ho 42. Vivere sotto costante artiglieria ti fa vivere nella paura della morte? Magari. Ti fa augurare la morte. Alla protezione devi associare la fama, la visibilità, l’aver deciso di prendere parte all’agone. Vivi la delegittimazione, l’osservazione continua in chi cerca l’errore per far cadere le tue tesi, il tuo impegno; occhi che spiano, sguardi che registrano, politici che misurano la propria campagna elettorale su di te. E poi l’orrida invidia delle ciurme di mestieranti: invidia di cosa poi, di questa merda? Le piazze piene? I teatri tracimanti di persone? I milioni di libri venduti? La credibilità internazionale? Prendeteveli, maledetti bastardi».

Dice di non sentirsi un eroe:

«Gli eroi sono solo morti. Vorrei solo insozzarmi nella vita e immergermi negli errori, nelle cazzate. Vorrei smettere di essere il bersaglio privilegiato di quella massa di lestofanti che per negare una tua presa di posizione o anche una tua idea non sono capaci di farlo argomentando, criticando. Devono cercare il lercio, l’errore, il buco nel calzino, l’unghia sporca. E ora che ci faccio con questa sentenza? Cosa ci faccio con la verità processuale? Se avessi modo, vorrei solo carezzare uno per uno il viso di chi c’è stato, di chi c’è, di chi legge e di chi mi ha difeso. Sussurrare che mi hanno salvato la vita o quel che ne rimane. Dire a queste lettrici, a questi lettori, a chi mi ha dedicato un pensiero, un post, persino una preghiera, che devo tutto a loro. Tutto? Non tutto, ma la parte buona: quello che di me non è peggiorato, non è diventato cinico, non è incattivito, non è crollato al cospetto della delusione».

Poi la conclusione:

«E ora cosa mi rimane? Aver avvelenato la vita di chiunque mi fosse accanto in qualsiasi forma e che io non sono stato capace di difendere da quello che provavo e dalle scelte che facevo. Mi chiedo perché sto condividendo questi pensieri con voi, anche se oramai non ci credo più che per me possa cambiare qualcosa? Perché lo devo ai miei carabinieri, che in questo istante sono davanti a me, silenziosi, e che non capiscono oggi qual è il dolore del giorno: se un mio cedimento, la tensione di una lotta o chissà cosa. Ma ci sono e basta. E mi sopportano. E mi chiedo quanto deve essere pesato anche a loro vivere blindati con me, sentendo quest’infinito cachinno addosso ma con la necessità di dover presidiare ogni spazio. E ora? Ora non faccio proprio nulla. Quello che ti è stato tolto non torna più, inutile pensare che ci sia il tempo di rimediare. Non sono in grado nemmeno di dirmi che ne è valsa la pena. Non torna più nulla. Avevo solo 26 anni e ora se potessi chiederei solo di camminare libero. Null’altro».

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