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Il crollo della Lega e del M5s, il successo monco di FdI e Pd: chi ha vinto e chi ha perso le elezioni comunali

salvini meloni conte letta chi ha vinto e chi ha perso le elezioni comunali
salvini meloni conte letta chi ha vinto e chi ha perso le elezioni comunali
Il primo turno delle elezioni comunali registra la caduta dei sovranisti e l'astensione record. Ma se nel centrodestra la confusione regna sovrana, nel centrosinistra ci sono ancora tanti problemi politici da risolvere. Eccoli

La caduta dei sovranisti, la crescita del Partito Democratico, il MoVimento 5 Stelle al minimo. E l’astensione record. Il primo turno delle elezioni comunali porta con sé risultati e verdetti politici piuttosto chiari. Il centrosinistra conquista Milano, Bologna e Napoli con la vittoria al primo turno di Giuseppe Sala, Matteo Lepore e Gaetano Manfredi. Ed è avanti a Torino in vista del secondo turno. A Roma ballottaggio tra Enrico Michetti e Roberto Gualtieri. Mentre la Calabria rimane al centrodestra ed Enrico Letta, segretario dei Dem, vince le suppletive a Siena e rientra in Parlamento. E mentre c’è chi già festeggia l’antipolitica a fine corsa e chi comincia una blanda autocritica, il verdetto più importante di questa tornata elettorale è quello che riguarda il governo Draghi. Che ne esce talmente rafforzato da poter essere considerato l’unico vero vincitore.

La Lega e la fine del momento magico di Salvini

Matteo Salvini ieri è uscito dal bunker di via Bellerio per annunciare che la Lega ha cinquanta sindaci in più. Magra consolazione per un partito che dopo la sbornia delle Europee 2019 vede che il suo decollo al Sud non si è mai compiuto mentre al Nord non c’è molto da festeggiare: nella Milano del “Capitano” la percentuale è più o meno la stessa di cinque anni fa, quando ci si chiamava Lega Nord e gli equilibri politici a destra erano ben altri, col Carroccio a rimorchio di Forza Italia. Alla Lega va male soprattutto la competizione interna con Fratelli d’Italia: Repubblica ricorda oggi che il Carroccio si fa superare dall’alleato a Roma e a Bologna, rischia anche a Torino e Milano. Il primato, a luna già alta, è ancora conteso e curiosamente sia Salvini che Giorgia Meloni lo reclamano. Anche se ormai, dentro un centrodestra in ripiegamento, sembra tanto la rincorsa di una vittoria di Pirro. Mentre il moderato Maurizio Lupi, senza mezzi termini, chiude la questione parlando di una «scoppola» per la coalizione.

Ma se la Lega perde 15 punti percentuali a Milano quello che atterrisce di più il leader è che così la sua linea finisce sotto processo. Con un incubo in mente. «Aspettiamo i ballottaggi e poi vediamo se i sondaggi su scala nazionale confermano che siamo ben sotto il 20 per cento. Ho l’impressione che di qui a poco ci troveremo a essere terzo partito», dice al quotidiano uno di quei big che restano ufficialmente in silenzio, che non dicono una parola lasciando il segretario a difendere un risultato modesto. I più critici sull’operato di Salvini, nell’ala Giorgetti e fra i governatori del Nord sono pronti a chiedere al leader un cambio di linea. A fargli notare che la trasformazione della Lega in soggetto politico nazionale «stia facendo tragicamente perdere consensi nelle aree di radicamento storico», per dirla con le parole di un altro big.

Fratelli d’Italia non sfonda

Dall’altro lato della barricata del centrodestra c’è Fratelli d’Italia. Che si gioca il primato delle liste a Roma con quella di Carlo Calenda ma è sotto di un punto (per ora) a Milano rispetto alla Lega e perde un punto rispetto alla precedente tornata in Calabria. La Stampa nota che nel complesso i numeri di FdI sono cinque volte maggiori rispetto alle comunali 2016 ma non sono in linea con i sondaggi di quest’anno. Meloni spariglia parlando d’altro: fa sapere di essere disponibile a votare Mario Draghi come presidente della Repubblica a patto di andare alle elezioni subito dopo il Colle. È la strategia che le conviene di più nel breve periodo, anche per battere il ferro ancora caldo dei sondaggi. Ma è difficile che le diano retta visto che persino la Lega nel frattempo si è rassegnata a votare nel 2023.

Per dare un voto a FdI alle comunali sarà decisivo il risultato di Michetti. Il primo partito della Capitale ha espresso un candidato che oggi ha però raccolto nel complesso meno di un terzo dei voti complessivi. Non ha sfondato, si potrebbe dire usando un eufemismo. Ora al ballottaggio chi ha votato Raggi e Calenda potrebbe convergere su Gualtieri lasciando a secco il vincitore del primo turno. E “salvando” così FdI dalla responsabilità di far funzionare Roma: una responsabilità che Meloni non voleva, come si evince dalla scelta di un candidato non riconducibile al suo partito. Per la paura di fallire e di finire bocciata prima di arrivare al vertice con le elezioni politiche. Ma così FdI continua a rimandare il momento in cui dovrà decidere cosa fare da grande. Ovvero se continuare con il nostalgismo o diventare un partito di governo. Perdendo così gran parte dell’appeal presso l’attuale elettorato.

Il Pd punta al 2023

Enrico Letta oggi parla con Repubblica e fissa un ambiziosissimo obiettivo per il Partito Democratico: puntare alla vittoria alle elezioni del 2023. «Il mio modello è quello di Scholz con la Merkel: garantire continuità al governo dentro un percorso complesso. Perciò faccio un appello agli alleati è: in questi sei mesi di unità abbiamo capitalizzato un patrimonio, non disperdiamolo». E ancora: «Noi ci affideremo agli elettori e gli chiederemo di fare una scelta chiara: o di qua o di là. Di votare per i nostri candidati, che sono tutte personalità di alto profilo, anziché per quelli del centrodestra che ha alzato bandiera bianca. E lo faremo rivolgendoci innanzitutto alle liste a noi più vicine. Io ho visto il M5S in migliore salute laddove era alleato con noi. E con Calenda dobbiamo convergere, anche se lui ha deciso in prima battuta di correre da solo. Il mio compito sarà ora persuadere tutti che stare insieme è l’unico modo per vincere, fra quindici giorni e alle politiche del 2023».

In realtà nel resoconto dei risultati del Pd manca ancora un dato fondamentale. Se il partito riuscirà a tornare al potere a Roma dopo il suicidio politico di Ignazio Marino allora i risultati potranno essere definitivi davvero positivi. Perché nella Capitale la vittoria del centrodestra pareva scontata e aver sovvertito un pronostico così certo è un segnale forte al panorama politico nazionale. Se invece alla fine Gualtieri non dovesse farcela questo significherebbe che c’è molto da registrare nell’alleanza con il M5s. Anche perché una sconfitta significherebbe che i voti di Raggi non sono automaticamente andati all’alleato strutturale. E questo sarebbe un problema per Letta in vista delle politiche.

Quel che resta del M5s

Ma sarebbe un problema anche per Giuseppe Conte. Impegnato a raccogliere l’eredità di quel che resta del M5s dopo la sbornia elettorale del 2018. Ovvero del grande cammino elettorale iniziato con le vittorie di Raggi e Appendino a Roma e Torino e conclusosi con la caduta del secondo governo dell’Avvocato del Popolo. I conti che fa La Stampa oggi sono impietosi. Nel 2016, con Beppe Grillo leader, il Movimento presentò 251 liste su 1.363 Comuni al voto, mentre nel 2021 con Conte presidente ha presentato 99 liste su 1.342 Comuni al voto. Sono cifre che in queste ore stanno circolando nel Movimento, mostrando una perdita del 59, 8% di presenza in termini di liste nei Comuni al voto sui territori. Se poi si confrontano i Comuni in cui il Movimento si è presentato nel 2016 e che sono tornati al voto nel 2021 (quindi escludendo i Comuni caduti prima per altri motivi) rispetto alle 205 liste con cui il Movimento, con Grillo capo politico, si è presentato nel 2016, questa volta il M5S ne ha presentate solo 64, perdendo 141 liste che hanno deciso di non ricandidarsi cinque anni dopo.

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