Comunali, Carone: «L’astensione è la vera vincitrice e la sua principale vittima è il centrodestra» – L’intervista
Sarebbe stato game, set, match se anche Trieste fosse caduta. Ma il tennistico 6 a 0 nella sfida centrodestra-centrosinistra per i capoluoghi di regione non c’è stato. Tuttavia, Roma e Milano, capitale istituzionale e capitale economica di Italia, da domani saranno governate da un sindaco di area Pd. Bologna, Napoli e Torino altrettanto. Matteo Salvini e Giorgia Meloni – da Forza Italia, per questioni di consenso, non ci si aspettava un exploit – non sono riusciti a far eleggere nessun candidato nelle città più grandi al voto. Il centrodestra perde Savona, Cosenza, Isernia. Non gli riesce il ribaltone a Varese e lascia al centrosinistra 13 capoluoghi di provincia o regione su 20. Altre tre città saranno guidate da sindaci di liste civiche. Salvini e Meloni mantengono sotto la propria influenza soltanto Novara, Trieste, Pordenone e Grosseto. E se non è un set a zero del gergo tennistico, quantomeno i due leader del centrodestra hanno subito un cappotto nel ping pong delle amministrative: solo quattro capoluoghi su 20.
Non può esultare, tuttavia, il Movimento 5 stelle. Va bene, l’élite grillina è corsa a Napoli a festeggiare la vittoria di Gaetano Manfredi al primo turno. Ma quell’entusiasmo mal cela le percentuali da limite di soglia dello sbarramento ottenute nelle maggior parte dei Comuni al voto. E il Partito democratico? Certo, la linea lettiana del campo largo progressista ha avuto ragione in questa tornata. Però, i Dem sono ben lontani dal tornare a essere il partito delle periferie che, in queste elezioni, hanno fatto vincere lo stesso candidato ad ogni latitudine: l’astensione. Abbiamo analizzato l’esito delle Comunali con Martina Carone, consulente in comunicazione per Quorum – YouTrend e docente di Analisi dei media all’università di Padova.
Quali sono le prime evidenze di questo voto?
«L’astensione, prima di tutto. La principale vittima della bassa affluenza è stato il centrodestra, in un contesto generale in cui i dati in mano ai sondaggisti ci dicono che l’area politica preferita dagli italiani resta comunque il centrodestra, scelto più o meno dal 40% dei campioni statistici. Ma in questa tornata, gli elettori di questo campo politico non sono andati a votare. Poi, notiamo come il Movimento 5 stelle sia stato praticamente inesistente nella tornata elettorale. È vero, sul piano locale i grillini non hanno mai brillato particolarmente, ma in queste elezioni hanno perso Roma e Torino che, cinque anni fa, erano state attenzionate da tutto il mondo. Se sta sparendo, è solo perché esiste in funzione dell’alleanza con il Partito democratico. Credo, infine, che sia importante fare una valutazione rispetto all’astensionismo, e credo che la debba fare sia chi ha gioito sia chi ha pianto per gli esiti elettorali.
Noi osservatori, invece, dobbiamo ragionare su quanto siano rappresentative queste comunali rispetto alle nazionali: erano chiamati al voto circa 12 milioni di italiani, soprattutto di grandi comuni e che non sono rappresentativi del trend nazionale – le grandi città sono generalmente più sbilanciate verso il centrosinistra. Letta ha cantato vittoria, ma se vuole sperare in risultati altrettanto soddisfacenti alle prossime legislative, deve concentrarsi sulle periferie. Il segretario ha dichiarato che il Pd non è più il partito della Ztl, ma di certo non è ancora il partito della periferia, visto che le periferie – vedere Roma – sono le aree che hanno registrato l’astensione più alta».
Anche per Conte il protagonista è l’astensionismo. Per Meloni il Pd non può esultare poiché Gualtieri, a Roma, ha vinto con solo 24% dell’elettorato. Salvini dice che i sindaci sono stati eletti da «una minoranza di minoranza». Anche per Letta l’affluenza è uno dei punti «dolenti» di queste elezioni. Come si spiega questo livello così alto di astensionismo?
«Da una parte, il secondo turno fisiologicamente vede un calo della partecipazione. Primo perché non ci sono i traini delle preferenze dei consiglieri, delle liste, insomma di un’offerta politica più ampia che dà maggiore scelta all’elettore. Al ballottaggio l’offerta è semplicemente di tipo binario. Poi, perché non sono stati secondi turni particolarmente entusiasmanti. Le offerte politiche che hanno passato il secondo turno non hanno particolarmente galvanizzato. Poche sfide davvero in bilico, al di là di come i media potessero raccontare i vari “testa a testa”, la “sfida all’ultimo voto”, il “clamoroso ribaltone”. Però facciamo attenzione: Meloni sostiene che non sia riconoscibile una vittoria con il 24% dei voti a Roma.
Tuttavia, sembrerebbe che proprio gli elettori della destra non siano andati a votare. Se fossi in lei, mi preoccuperei più di portare i miei elettori alle urne che delegittimare la vittoria di Gualtieri: se aumenta l’astensione nei municipi dove Michetti è andato discretamente bene al primo turno, vuol dire che tutto sommato gli elettori del centrodestra hanno trovato poco convincente la proposta di Fratelli d’Italia. In generale, i candidati del centrodestra non sono riusciti a motivare l’elettorato, per vari motivi. Pensiamo ai giochi di forza tra Meloni e Salvini che hanno reso difficile il compromesso, o alla scelta di non schierare nomi di peso nelle sfide più ostiche, come potevano essere Bologna e Milano. Ancora, le vicende nazionali, che hanno acceso i riflettori sulla contrapposizione tra fascismo e antifascismo.
Anche qui, Meloni e Salvini non l’hanno gestita bene. Penso al video in cui la leader di Fratelli d’Italia dichiara di essere ogni cosa ma non pronuncia mai la parola “antifascista”. Anche il leader leghista ha giocato nel suo passato politico con alcune nostalgie di sacche di elettorato: più che condanne nette al fascismo, ha cercato spesso di spostare il focus su altro. Per esempio nel giorno della nascita del Duce, il 29 luglio, Salvini pubblica un tweet citando Mussolini: “Tanti nemici, tanto onore”. Anche il segretario della Lega pesca da certi ambienti, li tiene in considerazione per il suo posizionamento».
La Lega di Salvini è tornata a incidere sotto il Po’ con la stessa efficacia della Lega Nord, verde, padana e invisa ai meridionali. Vedendo le percentuali raccolte in questa tornata, crede che resisterà anche al Centro-Sud un tesoretto di elettorato sul quale il segretario del Carroccio potrà contare per la volata verso le elezioni politiche?
«Un elettorato su cui può fare affidamento la Lega esiste. Non è detto che ci possa fare affidamento Salvini. Gli amministratori del Carroccio che governano le regioni del Nord, ad esempio, acquistano sempre più rilevanza nel dibattito pubblico. Pensiamo a Zaia, a Fedriga, sensibili ad esempio alle posizioni della comunità scientifica sul Green pass. Il consenso leghista, il nocciolo duro, viene mantenuto in vita da queste leadership che, interamente, si contrappongono a Salvini. Come influenza, loro coprono i poli industriali del Nord, rifuggono i toni forti che la segreteria usa contro il governo, contro Bruxelles. Ripeto, resta il nocciolo duro dell’elettorato leghista che garantisce un buon tesoretto di voti anche per le prossime elezioni politiche, ma non è detto che Salvini sia il miglior interprete per poterci dialogare».
Però a Torino, il candidato della Lega giorgettiano, Paolo Damilano, ha incassato una sconfitta netta. Non sarà mica in discussione l’intero partito – non solo Salvini -, attualmente forza di governo che non riesce ad avere un impatto sull’agenda Draghi?
«Credo che Salvini stia scontando la decisione di essere all’interno della maggioranza. Chissà quanto è stata una decisione presa dopo essere rimasto scottato dall’uscita dal governo Conte I. Evidentemente, dopo l’anno e mezzo all’opposizione, ha dovuto anche cercare di equilibrare le richieste che venivano dalle aree più governiste del suo partito, vedi Giorgetti. È in difficoltà Salvini perché la sua destrezza politica che ha permesso alla Lega di passare dal 3% al 34% delle Europee si è manifestata fuori dalle dinamiche tipiche di governo. Per lui, restare con Draghi è una grande sfida a cui è difficile rinunciare: se vuole andare a Palazzo Chigi, deve dimostrare di avere una classe dirigente formata e di sapersi muovere nei ranghi istituzionali. Fatica tantissimo, tuttavia, perché lui deve essere la super star: non riesce a conciliare il protagonismo con l’azione di un esecutivo poco strillato, poco urlato. Tornando alle ultime amministrative, ritengo che lui e Meloni abbiano peccato di hybris: hanno pensato che la selezione dei candidati non fosse determinante, visto quanto erano forti a livello nazionale i singoli leader. Invece, i risultati della tornata ci dicono che a livello locale la scelta dei candidati giusti ha ancora un suo rilievo».
A Roma è stata più influente l’indicazione di Conte che la reticenza di Raggi nell’appoggiare Gualtieri. Ritiene sia arrivato il momento per l’elettorato grillino purista di staccarsi e riconoscere in Di Battista e nell’ex sindaca di Roma i suoi leader?
«Anche il Movimento 5 stelle deve fare un ampio ragionamento rispetto alle proprie leadership. E il plurale non lo utilizzo a casa. Il Movimento è un mostro a diverse teste e, soprattutto a Roma, queste teste si sono beccate tra loro. La palese sconfitta di Raggi mette in grave difficoltà quella parte di Movimento che fa capo all’esperienza della sindaca e, potenzialmente, la perdita del Campidoglio può rafforzare la linea di Conte. A livello nazionale, i 5 stelle prendono così tante scocce, come si dice a Roma. Indicativo è il ritardo con cui Conte si è espresso su queste amministrative: è la conferma che c’è un dialogo vigoroso all’interno, che diventa spesso uno scontro. A ogni modo, non credo che una parte più movimentista, passatemi il termine, possa andare da qualche parte. Se il Movimento ha ancora un peso politico è grazie alla figura di Conte, ancora apprezzata, non di certo per le istanze di Di Battista o dei grillini ortodossi. Quella parte lì non ha particolare futuro politico».
Resta il fatto che l’alleanza Pd-M5s si rivela vincente per i Dem, ma un abbraccio mortale per i 5 stelle. Stanno scomparendo, persino Letta ha parlato di elettorati che si fondono ma che, al momento del voto, hanno premiato il Pd. Conte dovrebbe fare una riflessione sull’opportunità di unirsi in coalizione con il centrosinistra?
«Se fossi in Conte, avrei timore a parlare di una cosa del genere, ma se fossi nelle altre correnti interne, spingerei tantissimo per fare questo discorso: dopo il tracollo dei grillini in questa tornata, se fossi in un’area non contiana del Movimento, aprirei molto volentieri un ragionamento di questo tipo. Vorrei aggiungere, però, un appunto anche per il Pd lettiano. Doveva essere un partito nuovo, Letta nel discorso di insediamento lo scorso marzo mise tra i nuovi pilastri quello della leadership e della rappresentanza femminile. Non mi pare che la sua segreteria, però, abbia cambiato il corso delle cose – a parte i capigruppo di Camera e Senato -. Oggi Letta dice che gli dispiace non avere sindache donne nelle grandi città, ma lui è il segretario e qualcosa avrebbe potuto farla prima di dispiacersene. Non è solo una questione di avere o meno delle candidate: è una questione di come viene selezionata la classe dirigente e di come si scelgono le candidature. Siamo onesti, se le candidature sono espressioni delle correnti interne al Pd e i capi corrente sono tutti uomini, non porterai la parità di genere nel partito semplicemente cambiando la segreteria o i capigruppo».
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