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La parità salariale? Un miraggio lontano per le donne. Anche per quelle che studiano tecnologia e scienza

22 Ottobre 2021 - 09:36 Angela Gennaro
Il gender pay gap nell'Itc a cinque anni dalla laurea tra donne e uomini e di 250 euro. 200 in Economia, 100 nel settore medico. In media, tra tutte le professioni, tocca quasi i 300 euro. Pesa la segregazione verticale, ma non solo

Più istruite, ma meno pagate. Sempre e comunque, anche quando scelgono quei settori ancora tradizionalmente maschili e in cui gli stipendi son più alti. Accade alle donne in Italia: che la fotografia del gender pay gap nostrano resti immutata in bianco e nero, e non accenni a virare al colore anche per le lavoratrici, emerge da un nuovo report dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica diretto da Carlo Cottarelli. Lo studio, realizzato da Edoardo Bella – lo racconta Repubblica – verrà presentato al festival “L’eredità delle donne” domenica 24 ottobre a Firenze. E il risultato che più colpisce è proprio questo: che a cinque anni dalla laurea magistrale, l’abisso medio più ampio tra salari maschili e femminili si registra proprio tra chi lavora nel settore delle Tecnologie Itc: la bellezza di 250 euro. Il gap si riduce a 200 se parliamo di Economia, e ad “appena” 100 euro per medicina e farmacia: poche decine di euro a un anno dalla laurea, arrotondate a 100 a cinque anni.

Il gender pay gap

L’abisso tra salari maschili e femminili diventa ancora più evidente e significativo, si legge nello studio, ancora una volta se ci si riferisce alla media di tutti i settori. Come ricordato dalla storica Alessandra Pescarolo a Open, pesa il fatto che gli uomini arrivino a scegliere carriere in generale più remunerative: la cosiddetta “segregazione” verticale. La differenza di salario tra una laureata e un laureato magistrale, a cinque anni dal conseguimento del titolo, è di quasi 300 euro: 293 euro, ovvero il 21% del salario femminile, che si ferma a 1.403 euro a fronte dei 1.696 dei colleghi uomini. C’è appunto la questione di avere più donne impiegate in settori umanistici, dove il salario medio di un laureato/a a cinque anni dal conseguimento del titolo è di 1.335 euro (per psicologi e psicologhe addirittura di 1.167) a fronte dei 1.833 dei laureati/e in Tecologia Ict.

Il tema delle materie Stem (fisica, matematica, scienze, ndr) resta centrale: il 5% delle donne si laurea in ingegneria, mentre la percentuale per gli uomini sale al 20%. Il 5% dei laureati sceglie il settore linguistico, mentre le colleghe donne sono il 10%. Le ragioni di queste differenti scelte, spiegano ormai studi, esperte ed esperti, non è in una differente “attitudine” strutturale (e il pensiero corre alle parole di Alessandro Barbero che in questi giorni hanno scatenato una tempesta social e non solo di critiche nei confronti dello storico) ma di formazione culturale e di attitudine della società tutta a instradare e offrire alternative senza bias di genere.

Secondo lo studio dell’Osservatorio, le scelte di settore differenti di cui sopra “giustificano” parte del gap di 293 tra uomini e donne: 123 euro. E i restanti 170 euro, che costituiscono la differenza di salario tra generi a parità di settore scelto? Perché, a parità di settore e competenze, una donna è destinata a prendere meno di un uomo? Il report spiega che una delle ragioni va rintracciata nel fatto che le donne, intorno ai 30 anni, si orienterebbero ancora più dei colleghi alla cura della famiglia, con il 21% che opta per contratti part time a fronte dell’8% degli uomini, che lavorano in media 5,4 ore in più alla settimana. Trend che un eventuale rientro dalla maternità non può che confermare.

Secondo quanto ricordato in questi giorni dal B20, tra i più autorevoli engagement group del G20, che rappresenta più di 6,5 milioni di imprese in tutto il mondo, il 94% delle lavoratrici a livello globale ha in carico almeno un’attività di cura non retribuita. E bassa resta la quota di management femminile nel mondo: il 33% nel settore It nei paesi del G20. Nel 2019, prima della pandemia di Coronavirus, lavorava una donna su due – con grosse differenze territoriali, certo. Oggi siamo tornati sotto il 50%, al 48,6%.  

I costi per la società

L’interrogativo che lo studio dell’Osservatorio della Cattolica pone è chiaro: si tratta di una scelta libera, oppure di pregiudizi culturali per cui i lavoratori maschi sono preferiti, in termini di opportunità di lavoro, alle lavoratrici? Ci sono reti al maschile che confermano e alimentano lo status quo? C’è l’idea che assumere una donna abbia “costi” non strettamente salariali più alti (il suo poter rimanere a casa per esempio per almeno cinque mesi in caso di nascita di un figlio o una figlia, il suo rientrare in allattamento – costi coperti anche dall’Inps in caso di dipendenti, ma che hanno un impatto sull’organizzazione aziendale, per esempio)? Secondo l’Inps, a vent’anni dalla nascita di un figlio o una figlia, la retribuzione di una lavoratrice, a parità di mansione, è del 12% inferiore rispetto a quella di un collega uomo.

Le donne si laureano di più, e con voti più alti, ricorda ancora l’Osservatorio: alla maturità il 35,4% prende un voto tra 90 e 100, mentre la percentuale scende a 22,9% per gli uomini. Lo si continua a dire, non per ideologia ma perché lo raccontano i dati: tutto questo ha un costo per l’intera società, non solo per le donne. Per la Banca d’Italia, ricorda in questi giorni Chiara Gribaudo, prima firmataria della legge per la parità salariale approvata alla Camera e ora attesa al Senato, «se le donne lavorassero al 60%, ci sarebbe un aumento di 7 punti Pil all’anno». E l’intera società ci guadagnerebbe.

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