In Evidenza Benjamin NetanyahuDonald TrumpGoverno Meloni
ECONOMIA & LAVOROGiovaniIntervistePensioni

Dimenticati dalle quote, come andranno in pensione i giovani di oggi? L’idea dell’esperto: «Flessibilità in uscita e basta contentini»

28 Ottobre 2021 - 22:06 Felice Florio
Il professor Mazzaferro, docente di economia della tassazione: «Permettere di lasciar prima il lavoro senza far saltare i conti si può, ma ci vogliono regole chiare e definitive. Il reddito dei precari va sostenuto»

Anche se i sindacati sono scontenti (e la Lega pure), il governo Draghi con la manovra ha approvato una mini riforma delle pensioni secondo cui, per un solo anno, ovvero nel 2022, si potrà ricorrere a un anticipo della pensione attraverso quota 102: potrà lasciare il lavoro chi ha raggiunto i 64 anni di età, con 38 di contribuzione. Per tutti gli altri, assicura il premier, il sistema sarà puramente contributivo con età pensionabile di almeno 67 anni. Una prospettiva da brivido per i lavoratori più giovani, specie se precari, che rischiano di arrivare a fine carriera con pochi contributi. Eppure, spiega Carlo Mazzaferro, professore di Economia della tassazione a Bologna, tutelare i “senza quota” non è impossibile.

Professore, intravede segnali rassicuranti per le future pensioni delle nuove generazioni nella manovra?

«Posto che non è ancora certo l’esito di questa contrattazione in corso tra le forze di governo, mi sembra che l’esecutivo abbia dato un segnale chiaro: operazioni come quota 100 non rientrano nella filosofia di intervento futura. Quando si propongono soluzioni come quota 102 o 104, di fatto, non si fa altro che riconfermare la possibilità di anticipare la pensione per la stessa generazione di lavoratori che ha avuto i vantaggi di quota 100. Non saranno i giovani a poter beneficiare di un accesso anticipato al sistema previdenziale, la fortuna si ferma a chi è nato nel 1959. Perché l’esecutivo è intervenuto in questa maniera? L’obiettivo esplicito è quello di tenere sotto controllo la cassa nel breve termine, superando quota 100 che, seppure abbia avuto un tiraggio non particolarmente rilevante, ha fatto crescere di molto la spesa pensionistica. Torneremo presto al regime pre quota 100, il che vuol dire età di pensionamento elevata – fatte salve alcune categorie – e forti rigidità per chi potrebbe, invece, uscire in anticipo dal mercato del lavoro. Peccato, perché la domanda di flessibilità in uscita è presente nei cittadini ed esistono metodi per rendere compatibili flessibilità e sostenibilità. Però dev’essere una flessibilità pensata per durare nel lungo termine, in modo che possano accedervi anche i giovani di oggi che un domani, vorranno uscire dal mercato del lavoro prima di raggiungere la pensione di vecchiaia. Spesso la discussione si perde nella diatriba politica tra chi vuole tenere i conti in regola, ma nel breve periodo, e chi guarda invece ad accontentare determinate categorie».

A partire dalla riforma Amato del 1992, si è creata una faglia tra nuove generazioni, svantaggiate, e adulti che vanno in pensione con i rimasugli del sistema retributivo. Se consideriamo anche la direzione in cui va il mercato del lavoro, ovvero verso una precarietà sempre più spinta, pare evidente che i giovani riceveranno un trattamento pensionistico peggiore dei propri genitori. Per alcuni c’è addirittura il rischio di non raggiungere una soglia di contributi sufficienti.

«Le cose che lei dice, in verità, sono state addirittura aggravate da alcuni interventi della riforma del 2011, focalizzata quasi esclusivamente a garantire la sostenibilità dei conti. Per realizzare questo obiettivo, la riforma del 2011 ha posto il vincolo dei 67 anni per ottenere la pensione, indicizzata sulla prospettiva di vita. Quindi è una soglia destinata ad aumentare. Ed è vero che i pensionati futuri saranno completamente contributivi e se qualcuno di loro non avrà raggiunto una quota di contributi versati elevata, sarà costretto a lavorare ben oltre la soglia di età minima. Non è inverosimile che ciò accada, viste le carriere saltuarie o i lavori poco retribuiti che dilagano oggi. Per riassumere, dal 2011 in poi è stato deciso che il lavoratore non può uscire dal mercato fino a quando non ha maturato un importo sufficiente per ricevere una pensione dignitosa. E questo, dal punto di vista matematico, può essere anche corretto. Ma per la qualità della vita delle persone, immaginare che debbano essere costrette a lavorare oltre i 67 anni, anche se non hanno più niente da dare al mercato, può essere devastante».

L’Italia è tra i Paesi con l’età media più bassa in Europa per il raggiungimento della pensione?

«Questo è un falso mito. Se guardiamo le statistiche internazionali, vediamo che l’Italia partiva da età di pensionamento davvero basse, nettamente al di sotto delle altre Nazioni prima degli anni ’90. Poi c’è stato un recupero, è vero, ma se andiamo a vedere quello che succede all’atto pratico, l’Italia si aggira sulla media europea. Questo perché a fronte di annunci di aumenti dell’età pensionabile, ci sono stati tanti interventi di tipo categoriale. Anticipa la pensione per una categoria, agevola l’uscita dal mercato del lavoro per un’altra in un determinato periodo, e alla fine succede che l’età media generale non è schizzata in alto. C’è chi va in pensione a 67 anni, ma tanti altri che hanno ricevuto e ricevono trattamenti privilegiati. Ricordiamoci sempre che il regime attuale prevede la distinzione tra pensioni di vecchiaia, con età media di 67 anni, e pensioni di anzianità, con una media di 62 anni. L’età media generale dei pensionamenti, in Italia, viaggia tra queste due soglie di età».

Continua a essere rimandato il tema di una riforma organica del sistema previdenziale che affronti le problematiche che già sappiamo che affliggeranno le nuove generazioni. Perché?

«Tutte le cose lungimiranti e distanti nel tempo, ammettiamolo, non rientrano nell’agenda politica che deve macinare consensi immediati. Mi soffermo su un aspetto che vorrei venisse preso in considerazione dai legislatori. Dare centralità alla flessibilità, attraverso misure a lungo termine, non fa compiere ai lavoratori scelte motivate dalla paura, dall’indeterminatezza del sistema previdenziale. In Italia, ogni volta che si fanno delle riforme in ambito pensionistico, si agisce sotto pressione dei mercati finanziari, in reazione a un crisi macroeconomica».

Ad esempio, se un giovane potesse pianificare l’età di uscita dal mondo del lavoro con un sistema previdenziale che non viene corretto di governo in governo, sarebbe più facilitato nella scelta se riscattare o meno gli anni universitari. A proposito, cosa pensa della proposta di rendere il riscatto gratuito?

«Un’opzione che certamente ha un costo, però in alcune Nazioni viene già praticata. I primi anni in cui, in Italia, è stata introdotta una forma agevolata per il riscatto, c’è stato un discreto successo dello strumento. Inoltre, risponde all’esigenza di accumulare contributi per quei soggetti che iniziano a lavorare più tardi rispetto ai propri genitori, per concludere cicli di studi avanzati. Sì, i legislatori potrebbero introdurre il riscatto gratuito per compensare l’inadeguatezza delle pensioni future dei giovani di oggi. In una logica come quella del sistema contributivo, essendoci una corrispettività molto stretta tra ciò che l’individuo versa negli anni lavorativi e ciò che versa quando va in pensione, la forma di agevolazione avrebbe una coerenza. Certo, il riscatto gratuito è da considerare all’interno di un pacchetto di interventi non dico assistenziali, ma quantomeno redistributivi».

Insomma, il sistema contributivo renderà gli anziani di domani più poveri o non è sempre vero? Ed è auspicabile prevedere forme di sostegno al reddito per colmare quei buchi contributivi dati dalla precarietà del mondo lavorativo di oggi?

«Un sostegno del genere, se restiamo nell’ambito del sistema previdenziale, andrebbe dato alla fine, per rafforzare la pensione, non uno strumento pensato per aumentare i contributi durante la vita lavorativa. Perché, vede, la cosa più auspicabile deve essere risolvere il problema alla radice, ovvero che queste forme di impiego – lavori sottopagati, saltuari, estremamente precari – siano estirpate dal mercato del lavoro. Anche in un sistema di tipo contributivo, se un soggetto lavora per un tot di anni, riesce a riservarsi una pensione buona. Prendiamo ad esempio un lavoratore medio che ha lavorato per 36-37 anni: se esce dal mercato del lavoro con il sistema contributivo all’età di 65-66 anni, non riceve una pensione troppo diversa da quella dei suoi genitori. Magari va in pensione dieci anni dopo rispetto a suo padre e sua madre, ma in prospettiva vivrà di più di loro. Diverso è il discorso per un ragazzo che entra nel mercato del lavoro con il sistema contributivo e permane in uno stato di forte instabilità per una decina di anni. Ciò pone dei problemi importanti per la sua futura pensione. Però ripeto, è una questione che dovrebbe essere risolta nell’ambito del mercato del lavoro, non nell’ambito del sistema pensionistico: non si può chiamare la previdenza a risolvere problematiche causate dal mondo occupazionale odierno. Al netto, va detto, di forme di assistenza che devono essere comunque previste, come la pensione di garanzia».

Ultima domanda: i giovani possono iniziare a pianificare il proprio futuro post età lavorativa o devono stare alla larga da – ad esempio – versare contributi integrativi perché le regole del gioco previdenziale possono continuare a cambiare in peggio?

«È difficile che le cose, dal punto di vista di un giovane lavoratore, possano cambiare in peggio. In termini di manovre restrittive, non penso che i legislatori possano tagliare più di così sui futuri trattamenti pensionistici. In Italia abbiamo un sistema contributivo che non è molto diffuso nel mondo. Negli stessi anni in cui venne introdotto in Italia, anche la Svezia cominciò a implementare un sistema affine. Solo che Stoccolma, prima di renderlo operativo, ha coinvolto tutte le parti sociali e intavolato una diffusione lunga tre anni. Poi è diventato operativo e il sistema ha iniziato a funzionare dopo una fase transitoria molto più breve della nostra. Altro elemento: gli svedesi hanno avuto da subito la certezza dei loro diritti previdenziali, sapendo – e così è stato – che il loro sistema non sarebbe stato più toccato in maniera importante. Sostanzialmente, dal 2000 hanno una previdenza sana, che funziona. Noi, e torno a ripetere il concetto, siamo intervenuti nel sistema del governo Amato sulla scia delle crisi finanziare che imponevano di tappare buchi nelle casse pubbliche. Una toppa di qua, un’altra toppa di là, e abbiamo costruito un sistema complesso, i cui flussi di denaro in uscita e in entrata sono difficilmente misurabili: se io verso i contributi, per chi sto pagando la pensione? Per me stesso? Per un lavoratore della mia stessa categoria? Semplicemente, bisognerebbe partire facendo più chiarezza sul sistema previdenziale, semplificarlo e adottare misure sostenibili sul lungo termine, in modo da non intaccare più l’impianto per i prossimi decenni».

Leggi anche:

Articoli di ECONOMIA & LAVORO più letti