Road to Cop26 | L’attivista Martina Comparelli: «Parliamo molto di auto e poco di cosa mangiamo» – La videointervista
«Il ministro Cingolani ha in testa solo l’energia rinnovabile, ma quello a cui dobbiamo puntare è una transizione ecologica molto più ampia». Alle porte della Cop26, la Conferenza Onu sul Clima in programma a Glasgow la prima settimana di novembre, gli attivisti di Fridays for future non hanno intenzione di stare a guardare. Martina Comparelli, classe 1993, è tra i volti più noti in Italia del movimento studentesco nato nel 2018 dagli scioperi del venerdì di Greta Thunberg in Svezia. Durante lo Youth4Climate di Milano, tenutosi a fine settembre, Martina ha incontrato il presidente del Consiglio Mario Draghi insieme a Thunberg e all’attivista ugandese Vanessa Nakate. «Ci ha detto che era d’accordo con noi su tutta la linea», dice su Zoom. «Ma poi senti lui e Cingolani parlare ancora di gas e ti cadono le braccia». Martina, che al momento è a Bruxelles per uno stage al Parlamento europeo, è convinta che ci sia bisogno di parlare più attivamente anche di altri aspetti della transizione green. Aspetti che hanno più a che fare con gli aspetti culturali, come l’agricoltura non sostenibile e gli allevamenti intensivi.
Industria alimentare e emissioni
Come Greta e altri attivisti, anche Martina ha scelto di seguire una dieta vegana. «L’industria agroalimentare causa tra il 25% e il 30% delle emissioni, più addirittura di quella dei trasporti», spiega. «Eppure parliamo molto di automobili e davvero molto poco di cosa mangiamo». Ma è chiaro, dice, che non possiamo aspettare che tutti si informino e scelgano coscientemente di seguire una dieta plant based. «C’è bisogno che l’Unione europea smetta di finanziare l’industria intensiva e che i governi la scoraggino attivamente», dice Martina. Anche e soprattutto in Italia, dove la cultura del cibo è talmente radicata che affrontare un certo tipo di discorso è molto difficile. Non è immediato far accettare su larga scala il collegamento che esiste tra allevamenti intensivi e crisi climatica. E le ragioni sono anche più profonde: secondo uno studio del 2020 pubblicato sulla rivista Climatic Change (e riportato da Internazionale), le grandi industre del settore spendono miliardi di dollari per finanziare le politiche negazioniste per non perdere terreno. Negli ultimi 20 anni, 6 grandi associazioni di settore statunitensi hanno speso in tutto circa 200 milioni di dollari per fare pressione contro le politiche climatiche.
Cosa chiede Martina alla Cop26
Tra i temi da affrontare alla Cop26, dunque, ci sono soprattutto le politiche di mitigazione – cioè quelle mirate direttamente a ridurre l’emissione di Co2. «Parlare di Green fund e dei 100 miliardi da destinare ai Paesi in via di sviluppo è fondamentale, ma rischia di essere inutile se non mettiamo in atto politiche radicali», sottolinea Martina. «Se i Paesi ricchi investono questi soldi senza fare null’altro, tra qualche anno ci renderemo conto che sarà stato un intervento totalmente inutile. Perché la crisi climatica peggiorerà, i soldi stanziati non basteranno e il fondo sarà stato solo un modo per ripulirsi la coscienza senza troppi sforzi».
Immagine di copertina: Vincenzo Monaco per Open