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Road to Cop26 | Cosa c’entra il clima con le migrazioni? Kobusinge: «Inondazioni sempre più violente obbligano a fuggire»

30 Ottobre 2021 - 10:02 Giada Ferraglioni
In vista della Conferenza di Glasgow, in programma dal 31 ottobre al 12 novembre, Open ha intervistato diversi giovani attivisti in tutto il mondo. L'attivista ugandese ci ha parlato delle conseguenze più disastrose della crisi nel suo Paese e non solo

«I miei genitori producono thè. Fin da quando ero più piccola li ho visti perdere interi raccolti a causa della siccità. Per loro fare i conti con il cambiamento climatico significa non poter lavorare per interi mesi». Rose Kobusinge, 27 anni, è originaria dell’Uganda. Della sua giovinezza nell’Ovest del Paese, Rose ricorda soprattutto il suo legame con la natura. Ricorda i fiumi, gli alberi, le montagne. Ma nel corso degli anni, il rapporto tra gli ugandesi e la loro terra si è fatto sempre più complicato. Il cambiamento climatico ha trasformato quel senso di pace in angoscia: ai periodi di prolungata mancanza di piogge, si sono aggiunte le inondazioni, che ogni anno colpiscono senza preavviso interi villaggi, distruggendoli. Per provare a invertire la rotta, Rose aveva solo un modo: migrare in un altro Paese, studiare gli effetti dell’inquinamento e diventare un’attivista. Dopo essersi laureata alla Makerere University, a Kampala, ha studiato gestione ambientale all’Università di Oxford. Come altri giovani da tutto il mondo, sarà alla Cop26, la Conferenza Onu sul Clima che si terrà a Glasgow dal 31 ottobre al 2021. Rappresenterà il suo Paese come delegata: «La prima cosa che ho imparato è che tutto questo è in gran parte colpa dei Paesi ricchi. E che sono loro a doverci aiutare».

Le inondazioni in Uganda

Nella Regione in cui Rose è cresciuta, al confine tra la Repubblica Democratica del Congo e l’Uganda, c’è una delle montagne più alte dell’Africa. È la Stanley Mountain, monumento naturale dalla rara imponenza, secondo solo al Kilimangiaro e al monte Kenya. La punta più alta, la cima Margherita, raggiunge i 5.109 metri. Sulle sue vette poggiano importanti ghiacciai, che, però, si stanno sciogliendo a ritmi inquietanti. E inquietanti sono gli effetti collaterali: i rivoli che scendono dalla montagna finiscono in quantità esagerate nei fiumi a terra, che poi esondano. Ogni anno le inondazioni si fanno più violente e ogni volta e vittime sono numerose. «La gente muore vicino casa mia, muore ogni volta», dice Rose. «L’acqua distrugge i campi, le case, uccide gli animali. Non c’è modo di prevedere le inondazioni, accadono di notte mentre la gente dorme. E chi sopravvive è costretto ad andarsene».

I numeri sui rifugiati

Secondo uno studio della World Bank pubblicato nel 2018, il numero di rifugiati climatici arriverà nel giro di 30 anni a toccare i 120 milioni. Se le cose andranno molto male, nel 2050 potremmo contarne anche 140 milioni. «Quasi tutti sono persone vulnerabili», dice Rose. «Donne, bambini, anziani, uomini che hanno perso tutto». Al momento la maggior di loro viene tenuta nei campi profughi, privata di qualsiasi prospettiva, «senza che nessuno abbia idea di dove mandarli o di cosa fargli fare». «Non vengono coinvolte nelle decisioni – sottolinea – le loro voci non esistono. Vengono semplicemente lasciate indietro».

Cosa chiede Rose alla Cop26

I Paesi ricchi, dice Rose, devono fare molto di più. «Penso che i leader mondiali non si rendano conto della gravità della situazione. Quando viaggiano nei Paesi in via di sviluppo alloggiano negli hotel di lusso. E questo li tiene a dir poco lontani dalla realtà». Per lei, dalla Cop26 è importante che esca un progetto chiaro sull’accoglienza (presente e futura) dei migranti climatici. Eppure, nonostante la convinzione con cui difende le sue posizioni, dalle sue parole emerge un certo sconforto. Quando si parla di cambiamento climatico, dice, nessun Paese sviluppato ha interesse ad affrontare certi discorsi. «In Uganda, che ha a disposizione poco denaro e già fa i conti con quasi due milioni di sfollati, ospitiamo oltre un milione di rifugiati esterni. Quanti dei Paesi ricchi sarebbero disposti a fare lo stesso, o anche di più, ogni anno? Penso quasi nessuno».

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