Il contratto di rioccupazione non convince le aziende: solo 4 mila assunti su 325 mila. Le ragioni di un flop annunciato
325 mila assunzioni a tempo indeterminato. Tanto avrebbe dovuto portarci il contratto di rioccupazione, introdotto dal decreto Sostegni bis. E, invece, di quell’esercito di occupati non c’è traccia. Altro che 325 mila: numeri alla mano, i “rioccupati” sono stati appena 4.073 (600, invece, le domande ancora in corso di elaborazione, al 4 novembre). I dati li fornisce l’Inps e, per la prima volta, vengono messi nero su bianco dal ministero del Lavoro a seguito dell’interrogazione presentata dal giovane deputato del M5s Niccolò Invidia. Un contratto che prevedeva agevolazioni per i datori di lavoro e che, però, non ha affatto funzionato. Un flop, un super flop su cui il governo aveva destinato quasi 1 miliardo di euro (585,6 milioni per il 2021, 292,8 milioni per il 2022 e 42 milioni per il 2023). Soldi che, appunto, non serviranno. Le aziende, infatti, non lo hanno usato perché non lo hanno trovato conveniente. A spiegarlo a Open è proprio il deputato che ha sollevato la questione: «Abbiamo ricevuto segnalazioni da parte delle imprese del territorio, fortemente critiche verso questo strumento. Preferivano lasciar perdere piuttosto che applicare il contratto di rioccupazione, ritenuto insufficiente, spot e non in linea con i loro reali bisogni. Al contrario, il Fondo nuove competenze ha ottenuto un grande successo: quasi 40 milioni di ore di formazione già attivate, circostanza che ha reso necessario un suo rifinanziamento con i fondi del React-Eu. Le risorse inutilizzate per il contratto di rioccupazione? Credo vadano destinate per potenziare la formazione continua degli over 50 attraverso corsi ad hoc negli Its (istituti tecnici superiori, ndr)».
Cos’è il contratto di rioccupazione
Ma in cosa consisteva il contratto di rioccupazione? Era un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato – che poteva essere fatto tra l’1 luglio e il 31 ottobre 2021 – e che aveva l’obiettivo di incentivare l’inserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori in stato di disoccupazione «nella fase di ripresa delle attività dopo l’emergenza epidemiologica». Bisognava definire, nello specifico, un progetto individuale di inserimento «finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al nuovo contesto lavorativo». Al datore di lavoro, come forma di incentivo all’assunzione, veniva concesso l’esonero dal versamento del 100 per cento dei contributi previdenziali dovuti, esclusi i premi e i contributi dovuti all’Inail. Ma, di fatto, di che risparmio si trattava? L’esonero contribuito veniva accordato per un periodo massimo di 6 mesi e per un importo massimo di 6 mila euro l’anno (dunque, 3 mila euro in 6 mesi). Si stimava dunque un risparmio di massimo 500 euro al mese.
Perché era sconveniente per le imprese
Tante, troppe le criticità di uno strumento che, secondo i datori di lavoro, non era conveniente. Il contratto si sovrapponeva quello per la riqualificazione professionale destinato ai disoccupati e senza alcun limite di età con la differenza, però, che quest’ultimo portava a un risparmio complessivo annuo di 17 mila euro mentre il contratto di rioccupazione di appena 3 mila (su un reddito medio di 30 mila euro). Un calcolo che il consulente del lavoro Enzo De Fusco aveva fatto a maggio, ben prima dell’avvio della misura e certamente ben prima dell’interrogazione di Invidia. Dunque, che la misura sarebbe stata un flop lo aveva già detto, in tempi non sospetti, un esperto. E lo aveva preannunciato anche Open. «Chi ha scritto questo contratto non conosceva le norme, non sapeva forse che esisteva già un contratto che serviva a far rientrare tutti i disoccupati nel mercato del lavoro e che era certamente più convenite di questo, scoraggiante per le imprese. In questo caso, infatti, ho contato ben 15 divieti a fronte di appena 3 mila euro risparmiati. A chi conveniva? Questa non è altro che la smania di fare cose nuove quando sarebbe stato sufficiente applicare le norme già esistenti», ha spiegato il consulente del lavoro De Fusco a Open. «Insomma, più di 900 milioni sprecati. Questi sono proprio distanti dalla realtà», ha concluso.
Troppi divieti e condizioni
A questo si aggiunga che la misura riguardava quasi esclusivamente le piccole e medie imprese (quelle che, per ovvie ragioni, hanno assunto meno in questi mesi) tagliando fuori, invece, le grandi aziende che hanno raggiunto la soglia massima fissata dalla Commissione Europea per l’utilizzo degli incentivi per l’occupazione. Senza considerare poi decine di condizioni e divieti che hanno scoraggiato le imprese a usufruire di questa misura (altrimenti avrebbero perso gli sgravi riconosciuti). Decadeva dal beneficio dell’esonero dei contribuiti, dovendo quindi restituirli, ad esempio, quel datore di lavoro che procedeva al licenziamento del lavoratore «durante o al termine del periodo di inserimento» o se procedeva – come si legge nella norma – «al licenziamento collettivo o individuale per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore impiegato nella stessa azienda e inquadrato con lo stesso livello e categoria del lavoratore assunto con l’esonero», nei sei mesi successivi all’assunzione agevolata. E con questa rigidità, le aziende non potevano nemmeno applicare il cosiddetto “periodo di prova”, in genere di 6 mesi, che consente, senza troppe formalità e paletti, sia al lavoratore che al datore di lavoro di recedere dal contratto in qualsiasi momento e per qualsiasi motivo.
Foto in copertina di repertorio: PIXABAY
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