Il reddito di cittadinanza arriva in Senato. Lo sfogo di Saraceno: «Cosa esiste a fare un comitato se non viene preso in considerazione?»
La legge di Bilancio inizia il suo iter parlamentare a palazzo Madama. Con l’apertura formale di questo pomeriggio da parte della presidente Elisabetta Casellati, prima i senatori e poi deputati – tempi permettendo -, potranno presentare emendamenti alla Manovra da 30 miliardi approvata dal Consiglio dei ministri lo scorso 28 ottobre. C’è poco margine, però, per allocare in modo diverso le risorse previste. Enrico Letta sta tentando di far siglare un accordo alle forze della maggioranza: ha convocato i suoi pari a un tavolo sulla Manovra – con prospettive di negoziazione per il Quirinale -, ma ogni partito ha piantato il proprio paletto su un pezzo di finanziaria. Il più ingombrante, per significato politico e numero di parlamentari a rappresentarlo, è il reddito di cittadinanza: se salta il sussidio bandiera del Movimento 5 stelle, salta tutto. Per rifinanziarlo, con correttivi già inseriti nel testo attuale, la legge di Bilancio prevede l’utilizzo di quasi 9 miliardi. Un terzo della Manovra.
La Lega vorrebbe rosicchiare parte di quei fondi per destinarli a disabilità e fisco. Il resto del centrodestra non vede l’ora di smantellare il reddito di cittadinanza. Italia Viva, pure. Così, in Senato, le votazioni inerenti al reddito di cittadinanza rischiano di diventare il calvario della maggioranza ed è difficile che si entrerà nel merito delle modifiche fatte in consiglio dei ministri: l’intervento andrà avanti così com’è, dicono da più parti, senza ulteriori aggiunte. «Nel comitato ci siamo domandati: ma chi sta difendendo davvero il reddito di cittadinanza? Persino i 5 stelle, una volta ottenuto il rifinanziamento, hanno smesso di fare battaglie per migliorarlo».
C’è sconforto nelle parole di Chiara Saraceno, sociologa e accademica italiana che presiede il Comitato scientifico per la valutazione del reddito di cittadinanza. La scorsa settimana, l’organismo ha presentato la propria relazione e avanzato proposte, ma parallelamente la maggioranza si accordava su un testo che di quelle idee non tiene minimamente conto. «Il nostro è un comitato istituito per legge. Non siamo mica una benemerita associazione della società civile, un gruppo di esperti volenterosi e volontari – dice a Open -. Noi stessi membri pensavamo che se il governo aveva nominato un comitato scientifico per avere pareri sul funzionamento del reddito di cittadinanza era per prendere almeno in considerazione quei suggerimenti. Altrimenti, cosa ci facciamo qui, in questo ruolo?».
Professoressa Saraceno, le proposte del comitato per migliorare il reddito di cittadinanza non sono state prese in considerazione dai Consigli dei ministri dedicati alla Manovra. Che siano arrivate troppo tardi?
«Il ministro Andrea Orlando era a conoscenza delle nostre proposte un mese prima, forse due mesi prima che venissero rese pubbliche. Lui era d’accordo con quanto rilevato dal comitato e ha portato le nostre istanze alla negoziazione con gli altri membri del governo. Dopodiché, evidentemente, non è riuscito a far modificare l’impianto del reddito di cittadinanza. Anche perché i 5 stelle, una volta ottenuto il rifinanziamento, non hanno fatto altre battaglie per migliorarlo. Anzi, ad esempio hanno fatto resistenza per rivedere la scala di equivalenza in favore dei minori, che oggi valgono la metà degli adulti: noi proponevamo una redistribuzione più equa delle risorse per il reddito, loro si sono arroccati su questi 500 euro di assegno per tutti, che sono un po’ il loro totem. Non so se Orlando riuscirà a far passare degli emendamenti governativi al reddito, dovrebbe avere le spalle coperte dai partiti: non so se tutto il Pd è disposto a sostenerlo in questa sfida. Tanto più se riascolto le dichiarazioni dei 5 stelle, che pensavano di aver fatto la riforma del reddito solo per le piccole modifiche passate in Consiglio dei ministri, mi viene da dire che siamo messi molto male. Nel comitato ci siamo domandati: ma chi sta difendendo davvero il reddito di cittadinanza?».
Insomma, si apettava che i politici dessero seguito al decalogo stilato dal comitato voluto da quegli stessi politici. Sembra logico.
«È logico, ma io non sono un’illusa. Non pensavo che il governo prendesse in considerazione tutte le criticità rilevate dal comitato. Ma almeno devono spiegarci perché hanno detto “no” a tutto. Soprattutto, trovo deprimente che il governo continui ad avallare la narrazione che i percettori del reddito rifiutano il lavoro e preferiscono restare a casa, oppure che vengano inaspriti i controlli per limitare i cosiddetti “furbetti”. Se agisce solo su questi due fronti, vuol dire che non tiene conto del dato empirico più importante: l’offerta di lavoro è scarsa, praticamente assente per i beneficiari del reddito di cittadinanza. È questo che mi turba come cittadina oltre che come presidente del comitato. Spero che il governo, il parlamento e i partiti abbiano la volontà politica di cambiare la rotta del reddito. Mi auguro che vedano, studino e prendano minimamento sul serio il lavoro di un comitato scientifico».
L’età media dei beneficiari del reddito di cittadinanza è di circa 36 anni. Possiamo ritenere che abbia avuto un impatto positivo sui giovani nella ricerca di una propria autonomia e indipendenza economica dalle famiglie?
«In realtà su questo aspetto c’è un fraintendimento importante. Gran parte dei giovani sotto i 30 anni non ricevono il reddito di cittadinanza in quanto diretti beneficiari, ma in quanto figli di un nucleo famigliare che non si è ancora scisso. E ciò si inserisce nel contesto tipicamente italiano in cui i giovani lasciano piuttosto tardi la propria famiglia, a maggior ragione se sono costretti a farlo dalle condizioni economiche modeste. Il reddito di cittadinanza non è una misura per giovani che vogliono andare a vivere da soli o per coppie appena sposate con figli piccoli al seguito. Facciamo chiarezza, poi, quando parliamo dei fantomatici 500 euro che andrebbero ai giovani – con più di 18 anni -seduti sul divano: è falso, perché gli adulti della stessa famiglia ricevono una quota ciascuno del reddito di cittadinanza che spetta al nucleo famigliare, non l’assegno intero. Tutta questa ricostruzione fantasiosa nasce da un malinteso: originariamente, i 5 stelle – prima ancora di andare al governo – facevano propaganda sul reddito di cittadinanza immaginandolo come una misura di sostegno ai giovani disoccupati. Questo binomio – giovani disoccupati e reddito di cittadinanza – è rimasto nella narrazione. Poi, quando il reddito di cittadinanza si è dimostrato per quello che è in realtà, ovvero uno strumento di sostegno economico, come tutti gli strumenti assistenziali è stato legato al reddito famigliare. Non del giovane single che vive da solo, ma della famiglia con la quale il giovane è rimasto a vivere».
Un provvedimento nato per avere due gambe – una di sostegno economico contro la povertà e l’altra di contrasto alla disoccupazione, specialmente giovanile – che ha perso nella fase di applicazione la sua ragion d’essere.
«I giovani, una volta compiuti i 18 anni, dovrebbero trovare delle misure di sostegno di accompagnamento al lavoro, di integrazione al reddito: vanno date ai ragazzi le risorse e le opportunità per diventare autonomi. I giovani dovrebbero essere il target privilegiato delle misure pubbliche di sostegno economico, invece così non è. Poi va aggiunto il fatto che in Italia le politiche attive del lavoro non funzionano – questo vale per tutti, anche per gli adulti -. Quando è stato istituito il reddito di cittadinanza, si è diffusa l’illusione generosa che si potesse bypassare la scarsità di politiche attive del lavoro nel nostro Paese. Invece, se la formazione, l’aggiornamento continuo delle competenze professionali, i percorsi di orientamento non funzionano, qualsiasi misura per agevolare l’accesso degli esclusi al mercato del lavoro non può funzionare. I centri dell’impiego non sono pensati per accompagnare i percettori del reddito di cittadinanza verso un’occupazione: stiamo parlando di persone che hanno bisogno di sostegno psicologico, oppure che hanno bisogno di acquisire nuove competenze perché scarsamente qualificati. Pensiamo ai giovani che ricevono una quota del reddito di cittadinanza: tra loro ci sono tanti neet che vanno aiutati anche psicologicamente, oppure ragazzi che hanno abbandonato la scuola – o meglio, che la scuola ha abbandonato – e a cui mancano delle conoscenze basilari».
Navigator e centri per l’impiego: da bocciare?
«I navigator sono stati una soluzione ingenua per sopperire alle carenze dei centri per l’impiego. Al di là del fatto che, spesso, i navigator stessi erano persone al primo impiego, se consideriamo chi ha risposto meglio alle mansioni richieste notiamo che la loro attività è stata inconcludente. Perché? Perché il problema principale risiede nei centri per l’impiego dai quali i navigator dovevano passare per le pratiche, per far formare i beneficiari del reddito di cittadinanza. I centri per l’impiego, con poco personale e non sempre adeguato ai compiti richiesti per il caso del reddito di cittadinanza, non hanno dato corso alla maggior parte delle pratiche avviate dai navigator. Adesso, sembrerebbe che arriveranno molti soldi per le assunzioni di nuovo personale. Ecco, ritengo che i primi da assumere debbano essere proprio i navigator, che ormai un’esperienza sul campo se la sono fatta. Purtroppo, non mi sembra che si procederà così, e sarà l’ennesimo spreco in un settore cruciale come quello delle politiche attive del lavoro».
Ritiene che sia stato un errore introdurre nell’ordinamento italiano il reddito di cittadinanza?
«Io sono una di quelle che hanno criticato aspramente il reddito di cittadinanza quando fu istituito. Non perché veniva introdotta, aggiungerei finalmente, una misura più consistente del misero reddito di inclusione, ma perché si basava su meccanismi sbagliati. Ad esempio? I navigator, la scala di equivalenza adottata. Detto ciò, menomale che era in vigore il reddito di cittadinanza quando è scoppiata la pandemia: ha salvato tante famiglie da situazioni disperate. Adesso, però, dobbiamo guardarci in faccia: ci vantiamo di essere un Paese ricco, del G7, ma abbiamo introdotto solo tre anni fa una misura di protezione, una garanzia del reddito per chi è povero. Questo è inaccettabile. Dopodiché, adesso che abbiamo una misura del genere – seppure da riformare -, c’è bisogno di uno sforzo in più per renderla giusta, equa ed efficace. Ci sono persone in Italia che hanno bisogno soltanto di un’integrazione al reddito, altre che invece hanno bisogno di un accompagnato più strutturato: se a queste ultime diamo solo i soldi, non possiamo poi lamentarci che non facciano nulla per migliorare la propria condizione. Dovrebbero essere convocati con assiduità dai centri per l’impiego, ricevendo un’offerta formativa, venendo coinvolti in attività continuative nell’alveo dell’inclusione sociali. Molti beneficiari del reddito di cittadinanza hanno bisogno sì dei soldi, ma anche di sentirsi utili alla comunità».
Focalizzandoci sui giovani, cosa è mancato al reddito di cittadinanza per essere efficace e cosa andrebbe fatto?
«Per iniziare a prendere seriamente il tema delle politiche attive del lavoro, bisogna partire dai problemi della formazione. Ricordiamolo, la maggior parte delle persone e dei giovani che beneficiano del reddito di cittadinanza sono a bassisima formazione. Se vogliamo che escano permanentemente dalla povertà e non che accettino lavoretti sporadici qua e là, c’è bisogno di dare loro nuove competenze. Sembrerà banale, ma occorre anche far sì che si ristabilisca un rapporto di fiducia con le istituzioni affinché ci sia un incoraggiamento al lavoro e, in generale, al miglioramento delle proprie condizioni. Prendiamo ad esempio il reddito di cittadinanza. Se strutturiamo la scala di equivalenza in modo che la copertura del reddito di cittadinanza sia più generosa nei confronti dei singoli o delle famiglie molto piccole, che messaggio diamo ai giovani che vogliono metter su famiglia, avere dei figli? In Italia, dove il tasso di natalità è bassissimo, è fuori dalla grazia di Dio che coppie giovani senza figli siano avvantaggiate, nell’ottenimento del reddito di cittadinanza, rispetto a coppie giovani con figli. Ma non perché dobbiamo incentivare artificiosamente la natalità, ma perché i figli sono oggettivamente un costo importante da sostenere. È così ovvio. Così ovvio che il governo non ha recepito la nostra proposta di modificare la scala di equivalenza».
Immagine in copertina a cura di Vincenzo Monaco.
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