Contratto di rioccupazione, così ha perso il lavoro e ha vinto il «populismo giuslavoristico»
Il contratto di rioccupazione è un fallimento: come previsto da molti commentatori (ne avevamo parlato anche su queste pagine subito dopo l’approvazione della misura), il primo provvedimento proposto dal ministro Orlando per rilanciare il lavoro dopo l’emergenza del Covid 19 si è rivelato un flop senza precedenti. Il contratto aveva finalità nobili e ambiziose: incentivare l’assunzione dei giovani, mediante la definizione, con il consenso del lavoratore, di un progetto individuale di inserimento, della durata di sei mesi, finalizzato a garantire l’adeguamento delle competenze professionali al nuovo contesto lavorativo, in cambio di un esonero contributivo pari al 100% dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, fino a un tetto di 3 mila euro.
I dati del fallimento
I datori di lavoro non hanno ritenuto conveniente questo meccanismo, e lo hanno totalmente ignorato, come confermano impietosamente i numeri forniti dall’INPS: secondo l’istituto di previdenza, sono circa 4 mila le domande di esonero contributivo accolte per tali contratti (cui se ne aggiungono altre 600 in attesa di valutazione), nel periodo durante il quale sarebbe stata applicabile, in via sperimentale, tale fattispecie (dal 1 luglio al 31 ottobre scorso). Il numero parla da sé, ma il fallimento è ancora più evidente se si tiene conto del fatto che il Decreto Sostegni bis, il provvedimento con il quale era stato introdotto tale strumento, prevedeva l’accantonamento di fondi molto ingenti, sufficienti a finanziare almeno 325 mila contratti (cifra indicata nella relazione tecnica di accompagnamento al Decreto). Questo fallimento, come ricordato sopra, non deve sorprendere ma, anzi, era stato ampiamente previsto da molti commentatori, in quanto l’intero meccanismo del contratto di rioccupazione si basava su alcuni insuperabili errori tecnici e concettuali.
Le ragioni del fallimento
Non era chiara la natura e la funzione del progetto di inserimento, mediante il quale avrebbe dovuto trovare attuazione la finalità di «incentivare l’inserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori in stato di disoccupazione», così come non erano chiare le sanzioni applicabili in caso di mancata o incompleta redazione o attuazione dello stesso. Non era nemmeno chiara la convenienza del contratto, che di fatto costava di più del contratto di apprendistato ma offriva meno incentivi normativi e gestionali. E se anche il più ottimista dei datori di lavoro avesse deciso di stipulare il contratto, la sua volontà avrebbe dovuto scontrarsi con il cervellotico reticolo di condizioni, divieti e sanzioni che accompagnava il contratto. Questi evidenti errori tecnici non sono casuali e non costituiscono una novità nel nostro ordinamento ma, anzi, si inseriscono dentro una tradizione abbastanza consolidata.
Le norme sul lavoro traboccano di dichiarazioni programmatiche, sanzioni roboanti e incentivi solo apparentemente molto generosi, che non trovano quasi mai rispondenza concreta nel mercato e raramente producono gli effetti attesi o annunciati. Questo accade perché le norme vengono scritte non tanto per creare vera occupazione, ma servono soprattutto a dare in pasto all’opinione pubblica una soluzione rapida e immediata a problemi che richiedono, per trovare soluzione, un approccio ben diverso, ben più pragmatico e concreto; e accade perché questo «populismo giuslavoristico» si salda con un altro caposaldo del nostro diritto del lavoro, il formalismo esasperato e l’amore per tutto quello che è burocrazia, sanzione e divieto.
Quale strada per favorire la rioccupazione?
Se il Ministro Orlando volesse fare tesoro di questa brutta esperienza, cercando di rilanciare la giusta e meritoria finalità che lo ha spinto a proporre e far approvare il meccanismo del contratto di rioccupazione, potrebbe seguire una strada molto più semplice ed efficace di quella appena descritta: basterebbe cancellare le «causali» dei contratti a termine e di somministrazione, restituendo al mercato del lavoro (e a giovani, che più di tutti accedono al lavoro regolare con queste forme contrattuali) quegli strumenti di flessibilità regolare utile a combattere le false partite iva, le collaborazioni irregolari (cd. co.co.co) e il precariato contrattuale.
Con un semplice tratto di penna – sicuramente impegnativo sul piano politico, perché richiederebbe una rivisitazione del Decreto Dignità, il provvedimento “manifesto” del primo Governo Conte che tani danni ha fatto al mercato del lavoro – si potrebbe introdurre un vero contratto di rioccupazione, rilanciando una forma contrattuale che ha sempre svolto una funzione positiva per il mercato del lavoro: come dimostrano le statistiche, il lavoro a termine regolare è la strada maestra per la stabilizzazione occupazionale e per il contrasto ai contratti precari. Ed è un contratto che, nonostante le false paure seminate per scopi politici, non è mai dilagato nel nostro ordinamento, restando– grazie ai sacrosanti limiti esistenti – dentro percentuali di utilizzo assolutamente coerenti con la media europea. Speriamo che qualcuno abbia la forza e la volontà politica di raccogliere questo insegnamento che ci lascia, involontariamente, l’infausta vicenda del contratto di rioccupazione.
In copertina: il ministro Orlando (foto Ansa)
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