Femminicidi, parla la presidente della Commissione d’inchiesta Valente: «Nelle aule di giustizia troppi stereotipi contro le donne»
«Contro la violenza maschile serve una rivoluzione culturale e alle donne che denunciano si crede, punto e basta». A dirlo è Valeria Valente, senatrice del Partito democratico che presiede la Commissione di inchiesta sul femminicidio e la violenza di genere. Domani, 24 novembre, alla vigilia della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, presenterà la relazione sulla risposta giudiziaria ai femminidici in Italia. Un lavoro durato più di due anni e che ha coinvolto 23 senatori nell’analisi di indagini e sentenze di 211 casi di femminicidi avvenuti in Italia nel biennio 2017-2018. Ciò che è emerso – Open ha potuto visionare il rapporto prima della sua pubblicazione – è che in tutti gli apparati della società italiana si annidano stereotipi di genere che rendono difficile il contrasto al fenomeno.
«Se la violenza di genere è strutturale e costituisce un fenomeno mondiale, legato a ruoli comportamentali imposti – si legge nel documento -, è evidente che l’accettabilità sociale della violenza appartiene innanzitutto all’ambito familiare, sociale e culturale, cosicché il contrasto giudiziario costituisce soltanto l’ultimo anello della catena di un sistema che, complessivamente inteso, ha tollerato e tollera quella violenza». La senatrice Valente, relatrice della relazione, segnala a Open la presenza di criticità nella risposta giudiziaria ai femminicidi. Occorre «rimuovere quegli stereotipi e pregiudizi che finiscono con attraversare poi anche tutta la filiera degli operatori, quelli del sistema giudiziario certo, quindi giudici, pm, avvocati, consulenti – afferma -. Ma non solo, penso anche ai medici, ai comunicatori, agli educatori stessi. Ci vuole specializzazione e formazione per saper leggere la violenza».
Senatrice, il rapporto della Commissione rivela importanti mancanze nella tutela delle donne dalle forme di violenza. Dall’ambito giudiziario a quello legislativo, quali sono secondo lei i provvedimenti più urgenti da varare per fermare la piaga dei femminicidi?
«Come abbiamo scritto nelle conclusioni del rapporto, promuovere una diffusa cultura del rispetto nei confronti delle donne, capace di estirpare le radici della violenza a partire da uno sforzo che la renda riconoscibile, soprattutto da chi opera nelle istituzioni, è la vera priorità in questo momento. Le leggi ci sono, gli strumenti da applicare anche. Ma serve una grande rivoluzione culturale e civile che coinvolga innanzitutto le diverse agenzie educative, a partire dalla scuola, per rimuovere quegli stereotipi e pregiudizi che finiscono con attraversare poi anche tutta la filiera degli operatori, quelli del sistema giudiziario certo, quindi giudici, pm, avvocati, consulenti, ma non solo quelli, penso anche ai medici, ai comunicatori, agli educatori stessi. Ci vuole specializzazione e formazione per saper leggere la violenza. Chi le leggi le deve interpretare e attuare deve saper riconoscere la violenza domestica per quella che è: espressione di una sperequazione di potere dentro la relazione tra un uomo e una donna. Vanno banditi concetti come raptus, tempesta emotiva, gesto di follia. La violenza non va confusa, per esempio, con il conflitto che avviene tra soggetti che hanno una relazione paritaria e non fortemente impari come avviene per la violenza. Perfino le donne talvolta sono immerse nella cultura degli stereotipi e anche per questo a volte non riescono a denunciare».
In un terzo dei casi l’autore di femminicidio aveva precedenti penali o giudiziari. È evidente che qualcosa nella rieducazione del condannato – come prescritto dall’art. 27 della Costituzione – non va. Quale soluzione vede per un sistema carcerario di cui, spesso, si parla soltanto per il sovraffollamento, ignorando la parte del reintegro nella società del detenuto?
«In Italia si fa ancora poco per il recupero degli uomini maltrattanti e infatti come Commissione femminicidio stiamo per presentare un rapporto anche su questo fronte. Servono programmi, sistemi riconosciuti uniformi, monitoraggi. Siamo ancora di fronte a esperienze diffuse a macchia di leopardo sul territorio, molto diverse tra loro e soprattutto prive di standard qualitativi uniformi e risultati effettivamente verificabili e monitorati. Come Commissione crediamo nella necessità di investire di più è meglio su questo terreno proprio perché riteniamo indispensabile un’assunzione concreta di responsabilità da parte degli uomini autori di violenza e perché crediamo che sia giunto il tempo che siano loro, gli uomini violenti, a riconoscere quanto e dove sbagliano. Ovviamente gli interventi devono essere diversi a seconda che il tentativo di recupero, non sempre e per forza perseguibile, avvenga prima dell’avvio di un eventuale procedimento, durante o dopo l’esecuzione della pena».
Quasi il 90% degli autori di femminicidio che posseggono un porto d’armi, poi, si suicida. Anche per fermare la catena di morti e consegnare alla giustizia i rei di femminicidio, sarebbe opportuno inasprire le regole per l’ottenimento del porto d’armi?
«Io credo che il problema sia piuttosto la cultura di cui sono portatori parte di coloro che detengono un’arma, che può essere, non certo in tutti i casi per fortuna, incline al machismo, all’esibizione della forza maschile contro la presunta debolezza o vulnerabilità femminile. Certo, avere lo strumento a disposizione può rappresentare per le donne un pericolo aggiuntivo nei casi di propositi omicidi da parte di questi uomini. Sarebbe necessario forse verificare più accuratamente l’eventuale pericolosità sociale del soggetto prima di rilasciare un porto d’armi. Ma il tema centrale resta quello della cultura di cui quest’uomo è portatore perché purtroppo chi vuole portare a termine un femminicidio, lo dice in modo chiaro la nostra indagine, utilizza altri armi e strumenti, dai coltelli ai bastoni, dal soffocamento al fuoco, spesso con molta crudeltà».
Le pene richieste dal pm sono decisamente più alte di quelle poi decise dal giudice, con un totale del 65,7% di richieste sopra i 30 anni di carcere nel primo caso, contro il 45,5% di quelle emesse dal giudice. Come interpreta questo dato?
«Ciò che abbiamo appurato è che nella sentenza finale i giudici sono più portati a dare un peso maggiore alle attenuanti nei confronti degli uomini, rispetto alle aggravanti che giocherebbero a favore di sentenze più severe. Le attenuanti sono spesso legate all’incensuratezza, alla confessione, all’aver collaborato nel percorso giudiziario. Le aggravanti sono quelle relative al tipo di relazione esistente tra vittima e autore della violenza. Molto spesso dunque nell’opera di bilanciamento tra aggravanti e attenuanti incide il modo in cui il giudice legge i fatti della dinamica della relazione ed è proprio qui, in questo spazio di inevitabile discrezionalità, in quell’opera di libero convincimento che spetta al giudice e che nessuno vuole mettere in discussione, che però si annida il rischio che stereotipi e pregiudizi condizionino la capacità di leggere correttamente i fatti e dunque calibrare adeguatamente il peso delle circostanze, per arrivare poi a definire l’entità più giusta della pena. Con il Codice rosso abbiamo vietato la prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti. Con la legge 33/2019 abbiamo previsto l’impossibilità di accedere al giudizio abbreviato per i reati che prevedono la pena dell’ergastolo, tra cui appunto il femminicidio. Queste sono di sicuro scelte che impattano in maniera positiva sulla possibilità di evitare sconti di pena eccessivi, ma il tema resta, ancora una volta, quello della formazione degli operatori e quello di bandire dalle aule di giustizia stereotipi e pregiudizi sessisti. Giudici, pm, avvocati devono poter leggere correttamente le dinamiche di quella relazione in modo scevro dai retaggi culturali che spesso in maniera inconsapevole albergano dentro ciascuno di noi. Tuttavia, torno a dirlo, la pena non rappresenta un deterrente significativo ed efficace, se nel 35% circa dei casi il femminicida è disposto a perdere la vita e alla fine si suicida. Certo, rimane una questione di giustizia ma non è la soluzione».
Il rapporto rileva che il 63% delle donne uccise ha vissuto le violenze pregresse in totale solitudine. La percentuale di denunce arrivate è bassissima, solo 29 donne su 196 poi diventate vittime di femminicidio. Fa male leggere nel documento che presenterete il 24 novembre che in 15 casi, nonostante la denuncia, alla donna non è stato riconosciuto un sistema di protezione. Interverrete a tal proposito?
«Purtroppo è così. Ed è questo un dato che deve inchiodare tutti noi alle nostre responsabilità. Politica, istituzioni, operatori, tutti siamo chiamati a fare di più. Questo sempre senza generalizzare in maniera comoda e banale. Ricordando che esistono eccellenze sparse e che comunque in tanti casi la risposta c’è ed è puntuale e sono in corso sforzi importanti da parte di tutti. Penso a quelli delle forze dell’ordine, ma anche a quelli di tante procure sul campo. Detto questo, è innegabile che ancora non ci siamo. La sfida per tutti noi deve essere quella di un investimento massiccio perché si capisca davvero cosa è la violenza maschile sulle donne. Perché ha una sua radice peculiare e come tale va estirpata. Per spingere più donne a denunciare dobbiamo lavorare su un doppio fronte: fare in modo che le donne siano credute ed accolte in maniera adeguata negli uffici delle procure e nei tribunali e contemporaneamente che l’intera società, nelle sue diverse articolazioni, penso al vicino di casa, all’amica, al familiare, al collega o al negoziante di quartiere piuttosto che al medico di base, non faccia mai sentire la donna che subisce violenza in qualche modo corresponsabile di quanto sta vivendo, fosse anche solo per la mancata forza mostrata nel reagire. Bisogna cambiare prospettiva. Credere alle donne, dobbiamo creare un clima in cui alle donne che denunciano si crede, punto e basta. E vengono tutelate, punto e basta. E contemporaneamente chiedere conto agli uomini dei comportamenti sbagliati, barbari, distruttivi deleteri. Chiedere loro una chiara assunzione di responsabilità. Primo passo per provare la risalita. Questa è la nostra missione attuale, ed è per donne e per uomini».
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