Così la Cina ha fatto sparire Peng Shuai in 20 minuti dopo la denuncia dello stupro
La Cina ha fatto scomparire Peng Shuai in venti minuti. Dopo che la star del tennis ha accusato l’ex vicepremier Zhang Gaoli di violenza sessuale con un post su Weibo, la censura di Pechino ha utilizzato un playbook per cancellare le tracce della discussione che si è scatenata sui social network. Una strategia che il governo ha utilizzato anche per le proteste del 2019 a Hong Kong e all’inizio della pandemia di Coronavirus. Stavolta, secondo l’analisi del New York Times e di ProPublica, Pechino ha utilizzato i controlli su Internet per cancellare tutti i riferimenti all’accusa e per limitare gli spazi digitali in cui le persone potevano discuterne. Insieme, ha scatenato una rete di falsi account su Twitter per rispondere alle critiche che arrivavano dall’estero.
La censura di Pechino
Come si è mossa la censura di Pechino? Il Nyt spiega che la prima decisione è stata quella di cancellare le accuse di Peng da Weibo. Poi ha cancellato tutti i post che si riferivano alle affermazioni della campionessa di tennis. Arrivando persino a bannare la parola “tennis” e collezionando la cancellazione in poche ore di centinaia di parole chiave. L’analisi di Xiao Qiang, ricercatore dell’Università della California, un trattamento del genere era stato riservato in precedenza soltanto alla repressione di piazza Tienanmen nel 1989. I censori hanno mantenuto l’account di Peng su Weibo ma lo hanno reso quasi invisibile, rimuovendolo dai risultati di ricerca. Hanno anche disabilitato la possibilità di commentare sul profilo della tennista. Impedendo di commentare anche articoli vecchi che parlavano di lei.
I funzionari hanno reso spesso invisibili gli account di altre celebrità che sono entrati in conflitto con il regime. Ma il caso Peng è diverso per la vasta eco e risonanza a livello mondiale. La scomparsa della tennista dalla vita pubblica ha poi portato a sollevare pubblicamente preoccupazioni sulla sua sicurezza. E quando l’hashtag #WhereIsPengShuai ha cominciato la sua corsa sui social mondiali è cominciata la rappresaglia semiologica. Prima con la pubblicazione della mail in cui Peng negava tutte le accuse e chiedeva di essere lasciata in pace. Ovviamente lo stratagemma non ha funzionato. Anzi, ha messo ancora di più nei guai Pechino. Che a quel punto ha reagito con i famosi scatti con gatti e pelouche, che secondo l’emittente statale CGTN provenivano dall’account WeChat di Peng. Poi è arrivato il video della tennista a cena con un gruppo di persone in un ristorante di Pechino.
La guerra di video e tweet
Un’altra piega della strategia di propaganda cinese è quella di enfatizzare le voci straniere che conferiscono credibilità e legittimità alla versione che si vuole accreditare. Secondo il Nyt è quello che è successo quando il presidente del Comitato Olimpico Internazionale Thomas Bach ha detto di aver parlato in una videochiamata con Peng Shuai. Su Twitter la dichiarazione del comitato è stata condivisa da un esercito di falsi account in quella che è sembrata una campagna coordinata. Secondo ProPublica, 97 account falsi hanno fatto circolare versioni dei fatti favorevoli al governo cinese a proposito della vicenda. Oltre 1700 erano quelli che portavano i segni della campagna. Gli account sono stati rimossi da Twitter. Infine la censura di Weibo ha continuato a cancellare i commenti che si riferivano alla vicenda, tranne uno. Quello dell’ambasciata francese che esortava la Cina a proteggere le donne. Lo ha lasciato perché gli utenti si sono scagliati contro il tweet accusando Parigi di ingerenza negli affari della Cina. I post che esprimevano sostegno all’ambasciata invece sono rapidamente scomparsi.
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