La denuncia di un’infermiera: «Ora ha paura dei pazienti No vax: da loro minacce e violenze mentre li curiamo»
Per gli operatori sanitari alle prese con i reparti Covid e le terapie intensive che tornano a riempirsi, sta diventando sempre più difficile e a volte rischioso curare i sempre più numerosi pazienti No vax. Lo sa bene il primario della terapia intensiva dell’ospedale fiorentino di S. Maria Annunziata a Ponte a Niccheri, Vittorio Pavoni, che per primo ha lanciato l’allarme. Oggi un’infermiera racconta al Corriere della Sera di minacce, intimidazioni e persino atti di violenza, sempre all’interno dello stesso ospedale, sempre da parte di chi non crede né al vaccino né alla pandemia del Coronavirus. I medici e gli infermieri, infatti, temono per la loro incolumità e sono continuamente attaccati da persone che, pur stando malissimo a causa del virus, rifiutano le cure. «Un No vax che protesta, ti offende e ti minaccia di metterti le mani addosso, ti mette in discussione nel tuo lavoro, ti fa entrare l’angoscia solo per infilare un ago. Non sei più sicura di quello che fai», racconta l’infermiera. Tra le minacce più comuni c’è «ti metto le mani addosso»: «Quando ti avvicini con una siringa e ti senti dire una cosa del genere, la mano ti trema, non sei più capace di fare il tuo lavoro», dice. Gli insulti più comuni sono che medici e infermieri devono «vergognarsi» e che sono «parte di un sistema corrotto». Ma una volta si è addirittura arrivati alla violenza.
Il 65enne No vax che ha spaccato due caschi per l’ossigeno
È il caso di un 65enne, No vax e positivo al Covid, che viene portato dall’Usca, «contro la sua volontà», in ospedale perché sta malissimo, ha difficoltà a respirare, è «violaceo». Prima l’uomo offende i sanitari, parla di «dittatura sanitaria», «nega di avere il Covid», poi non respira più e allora accetto il casco per l’ossigeno. Quando ricomincia a respirare meglio, però, se lo toglie spaccandolo. Poi, a seguito di una seconda ricaduta, rimette il caso e, di nuovo, quando si riprende, ne spacca un altro. L’uomo, alla fine, «è morto». «Ci diceva che eravamo folli – racconta l’infermiera – Mi trovai d’accordo con lui per una volta e mi resi conto che un po’ folli dobbiamo esserlo per stare ore dentro dei sacchi della spazzatura come vestiti, a 40 gradi (era estate quando è accaduto il fatto, ndr) per curare qualcuno che “non ha niente” o che comunque non vuole esser curato». E, infine, confessa: «Abbiamo imparato che dobbiamo curare tutti ma oggi facciamo fatica a rispettare il nostro giuramento».
Foto in copertina di repertorio: ANSA/CIRO FUSCO
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