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Scandalo plusvalenze nel calcio, Dino Ruta: «La soluzione? Il modello americano»

23 Dicembre 2021 - 10:27 Stefano Scibilia
Il docente e direttore dello Sport Knowledge Center di Sda Bocconi fa chiarezza sul fenomeno. E propone alternative per migliorare il sistema

Il fenomeno delle plusvalenze ha portato in questi ultimi giorni all’apertura di inchieste da parte della Procura ai danni di Juventus, Inter e altri club della Serie A. Secondo l’accusa, il valore economico di alcuni giocatori viene spesso gonfiato all’interno delle trattative del calciomercato, dove a stabilire il valore di un singolo calciatore è la stessa società, senza alcun controllo da parte del sistema calcio. Ne abbiamo discusso con Dino Ruta, docente e direttore dello Sport Knowledge Center di Sda Bocconi.

Professore quali sono le regole per evitare di incorrere in illecito in quelle che sono le valutazioni di mercato dei calciatori?

«Risulta sempre più necessario eliminare il concetto di valutazione dei calciatori, perché non ci sarà mai alcun criterio che potrà rendere oggettiva una valutazione di questo tipo. C’è una anomalia nel sistema di rilevazione contabile perché l’asset di riferimento ha una valorizzazione che è basata su criteri estremamente soggettivi che sono mutabili nel tempo, cosa che non accade per nessun altro tipo di asset, ad esempio gli immobili che sono valutabili in modo oggettivo. Andrebbe trovato un sistema alternativo, un po’ come il modello americano, che non tiene conto dell’acquisto del cartellino tra società e si basa principalmente sui salari e sugli stipendi».

Stanno nascendo nuovi intermediari la cui funzione principale è quella di far dialogare i club durante le trattative. Queste figure rischiano di incentivare gli scambi fittizi?

«Uno dei problemi del calcio è che ci sono troppe transazioni e troppa focalizzazione sulle plusvalenze, perché queste ultime sono necessarie per le iscrizioni ai campionati o alle competizioni europee. Quindi è inevitabile che ci sia troppa enfasi sulla questione delle plusvalenze, con il rischio di manipolare la valutazione del giocatore. Tuttavia, nel momento in cui si elimina tutto questo, si potrebbero liberare risorse economiche che potrebbero essere investite per migliorare il sistema, gli impianti, la qualità dei dirigenti, dei tecnici e dei centri di allenamento. I calciatori andrebbero invece trattati con un contratto da artisti su prestazione d’opera. In questo modo eviteremo anche che, quando un giocatore firma un contratto di tre anni e gioca dieci partite di fila, scatta la minaccia del rinnovo del contratto. I calciatori oggi hanno più potere delle società, perché solo grazie ai contratti lunghi possono sperare di rivendere il giocatore. Ma se il giocatore vuole andarsene a parametro zero, allora non rinnova il contratto (come ha fatto Donnarumma). Quindi risulta completamente sbagliato il concetto di avere un contratto per poter vendere il giocatore».

È giusto che in una trattativa la Federcalcio non abbia un controllo sul valore di mercato di un calciatore e che a deciderlo siano i club?

«La Fifa ha dichiarato che sta cercando di individuare un algoritmo per inquadrare la valorizzazione del calciatore, ma stiamo parlando sempre di un tentativo di oggettivizzare qualcosa che resta soggettivo. Quindi alla fine la vera soluzione non è nella Federcalcio, ma dovrebbe essere nel sistema calcio e quindi nella Fifa. Questa, con le principali confederazioni, dovrebbe cambiare i principi contabili per la contabilizzazione dei giocatori e dare molta più trasparenza ai salari e ai diritti di immagine».

Quanto è importante che la Fifa metta in atto delle riforme di controllo per gli intermediari di queste operazioni?

«Cambiando il sistema, cambierebbe anche il ruolo degli intermediari. Nel momento in cui un club deve mettere sotto contratto dei giocatori, così come accade nel modello americano, il giocatore deve essere assistito da un agente che lo aiuti a spuntare il miglior contratto secondo una serie di parametri e di clausole. L’unico obiettivo delle società sarebbe dunque quello di avere dei giocatori, quindi avviene una negoziazione con il procuratore. Questo sistema, che invece è basato sulle plusvalenze incrociate, genera tutta una serie di attori che ruotano con l’obiettivo di far girare i calciatori a delle valutazioni stellari.

Può farci un esempio pratico?

I settori giovanili sono fondati sull’idea di crescere giocatori per poi venderli, ma se poi l’operazione non riesce, viene meno l’investimento. Se io ho un settore giovanile, cresco un giocatore e lo vendo a 10 milioni ho generato plusvalenze, perché quel giocatore l’ho formato io. Giocatori come Totti o Maldini non hanno potuto generare delle plusvalenze perché non sono mai stati comprati da altre squadre. Questo fa capire che oggi il sistema spinge sempre di più alla commercializzazione degli atleti e, tranne che per qualche caso eccezionale, non esiste più il concetto secondo cui un giocatore nasce e rimane lì. Perché l’ipotesi rappresenterebbe una grande perdita per il bilancio».

È finita l’era delle bandiere…

«È finita perché è il sistema che ti spinge a far girare i giocatori. Oggi si guadagna molto dalla vendita di un giovane cresciuto nel proprio settore giovanile. Poi esistono anche i cosiddetti premi di preparazione, apprendimento e alla carriera per la FIGC, e i contributi di solidarietà e di formazione per i trasferimenti internazionali. Occorre far sì che tutti i premi siano collegati allo stipendio da professionista, vale a dire che una parte dello stipendio dovrebbe andare alla società dove quel calciatore è cresciuto. In quel caso il settore giovanile è comunque incentivato a sfornare calciatori di alto livello, e, allo stesso tempo, non viene ricompensato dalle transazioni ma dal salario. E’ già in parte così, ma questo meccanismo va rinforzato, eliminando appunto il valore del cartellino. In questo modo la longevità e la qualità delle carriere dei calciatori avrebbero un ritorno sui settori giovanili e sul tutto il sistema calcio».

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