Hervé Barmasse, un italiano sul Nanga Parbat sfida la parete più alta del mondo: «Perché fare fatica ha senso» – L’intervista
Non sempre nella storia dello sport le imprese più famose sono quelle che si concludono con una vittoria. Hervé Barmasse, classe 1977, è un alpinista italiano. Uno dei più forti della sua generazione. Figlio, nipote e bisnipote di alpinisti, ha aperto 33 nuove vie tra Valle d’Aosta, Pakistan, Nepal e Tibet. Dieci solo sul Cervino, la montagna dove è di casa. Eppure una delle sue imprese più note è un’ascesa dello Shishapangma, montagna da 8.027 metri in Tibet, che si è fermata tre metri sotto la vetta. La neve che ha trovato insieme alla sua cordata era troppo instabile, il rischio di cadere troppo alto. Nel mondo dell’alpinismo, questa rinuncia è diventata una delle metafore più importanti del concetto di limite, della capacità di riconoscere e accettare i confini senza osare superarli.
A fine dicembre Barmasse è partito di nuovo per il Pakistan. L’obiettivo è scalare la parete Rupal del Nanga Parbat (8.126 metri), un inferno di ghiaccio che da solo misura 4.500 metri. È la parete più grande del mondo e nessuno ha mai provato a salire lungo questa via in inverno. Barmasse non è solo in questa impresa. Insieme a lui ci sono il tedesco David Goettler e lo statunitense Mike Arnold. In un’epoca in cui anche le esplorazioni passano dai social, sta raccontando sul suo profilo Instagram la sua vita al Campo Base tra allenamenti, simulazioni e preparazione dei materiali. Un’attesa che durerà fino a quando il cielo deciderà di aprirsi nella sua stagione più fredda e offrire una possibilità per tentare l’impresa.
Ti ricordi quando è stata la prima volta che hai sentito parlare del Nanga Parbat?
«Ero piccolino e non ero appassionato di montagna. In famiglia si parlava di Hermann Buhl, il primo scalatore ad arrivare in cima. Aveva compiuto questa impresa incredibile perché alla fine, sull’ultimo tratto, aveva continuato da solo raggiungendo la vetta. In una famiglia in cui da quattro generazioni si respira aria di montagna Buhl era diventato una leggenda come altri protagonisti di questa disciplina, da Walter Bonatti a Reinhold Messner».
Quando hai deciso di provare questa ascesa nella stagione invernale?
«L’idea di provare a scalare la parete più grande del mondo in inverno è nata molto tempo fa con David, oggi mio compagno di cordata. L’anno scorso un team nepalese ha scalato per la prima volta il K2 in inverno e tutti nel mondo dell’alpinismo hanno cominciato a chiedersi cosa si poteva fare di più. Il K2 era l’ultimo 8 mila che non era mai stato scalato nella stagione fredda. Allora abbiamo pensato a questa impresa. Noi però non vogliamo solo battere un record. È importante come lo facciamo. Ormai le montagne più alte del mondo sono coperte di corde fisse, strutture di plastica che poi vengono abbandonate. Oggi non importa più solo arrivare in vetta ma anche come: non useremo nessuna di queste strutture e nemmeno l’ossigeno».
Cosa vuol dire essere un alpinista oggi? Quali sono le differenze tra la tua attività e quella di tuo padre?
«Essere un alpinista oggi è molto diverso da quello che facevano mio padre o il mio bisnonno. È cambiata la professione ed è cambiato anche l’Himalaya. Ci sono molte comodità e tecnologie che ci aiutano in tutto, ad esempio nelle previsioni del tempo. È proprio per questo che dobbiamo alzare l’asticella del limite».
Quando hai deciso di seguire la strada della tua famiglia?
«Io nasco sciatore. Ero considerato una promessa dello sci alpino. Poi un incidente ha cambiato la mia rotta. Tutto è successo un po’ per caso. Il mal di montagna nella mia famiglia si prende facilmente. Quando ho smesso di sciare ho cominciato a guardare la montagna come qualcosa da salire e non solo da scendere. È stata una bella occasione, da quell’incidente sugli sci pensavo che ormai la mia vita non avesse nessuna sorpresa da regalare. Ho avuto fortuna».
Vorresti che le tue figlie seguissero i tuoi passi?
«Ho due figlie bellissime ma spero che non seguano le mie orme. Spero che non diventino scalatrici professioniste. Magari arrampicatrici sportive, visto che ora è uno sport olimpico. Se diventassero artiste sarei più felice anche se qualsiasi cosa faranno le appoggerò e cercherò di aiutarle».
Nel 2017 ti sei fermato a tre metri dalla vetta dello Shishapangma. Sei pronto a fare la stessa cosa?
«Si. Con David ci siamo fermati tre metri proprio sotto la cima. Era normale farlo. Quei metri potevano essere la differenza tra la vita e la morte. Purtroppo c’è molta omertà nell’alpinismo, soprattutto in Himalaya. Molte persone dicono di essere arrivate in cima quando non è vero. Noi abbiamo detto la verità per lanciare un messaggio: non è che se non arrivi in cima hai fallito, hai comunque vissuto un’esperienza grande. Dopo tutta quella strada dire “Ci fermiamo” è stata una presa di coscienza. Non avrei problemi a rifarlo».
Com’è la tua giornata al Campo Base?
«A differenza delle altre spedizioni, in questo Campo Base non stiamo mai fermi. Stare tutto il giorno chiusi in una tenda non ha senso. Cerchiamo sempre di allenarci e di correre, anche quando fa brutto, aiuta l’acclimatamento ed è divertente. Per noi è un allenamento».
Nelle scorse settimane si è parlato molto di 14 Peaks, il documentario sul nepalese Nimsdai Purja che raggiunge tutti gli 8 mila del mondo in una sola stagione. Cosa ne pensi?
«Non ho visto il film e non so se lo guarderò. Conosco la storia di Nimsdai Purja ed è molto bella. Lui però ha un passato nelle forze speciali dell’esercito e ha adottato uno schema militare per raggiungere un record. In realtà l’alpinismo dovrebbe essere tutt’altro, meno tecnologia e più avventura. Messner una volta ha scritto un articolo sulla morte del drago: parlava di come la modernità ha reso più facile scalare le montagne, distruggendo quel senso di impossibile che le circondava. Io scalo in stile alpino, pulito. Senza corde fisse e senza ossigeno. È uno stile che rispetta la montagna anche se porta meno fama. L’idea di sconfiggere un drago però ci permette di affrontare un’esperienza incredibile».
Hai detto che scalare il Nanga Parbat dalla parete Rupal è come fare cinque Ironman con 25 chili sulle spalle. Che senso ha tutta questa fatica?
«Fare fatica può avere un senso. La fatica elabora qualcosa dentro di te che ti fa maturare. Ho sempre vissuto così la montagna: la fatica, l’impegno, il rischio, il pericolo. Sono tutte cose che mi fanno maturare come uomo. Spero che possa essere così anche questa volta».
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