Bitcoin, l’allarme Ue sul consumo di energia per l’estrazione. Gli esperti: «Il rischio è una fuga di massa»
Le miniere impiegano troppa energia per l’estrazione delle monete virtuali. E lo spreco ricade anche sulle rinnovabili. Questo l’allarme che arriva dall’economista svedese Erik Thedéen, nominato un mese fa vicepresidente dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati. Thedéen ha definito la creazione di valute un «problema nazionale» che impedirebbe di raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul riscaldamento climatico, ovvero di restare entro un rialzo della temperatura di un grado e mezzo rispetto ai livelli preindustriali. Per generare bitcoin un algoritmo è chiamato risolvere equazioni matematiche di grande complessità. La potenza di calcolo che viene raggiunta nel processo di mining (l’estrazione delle monete virtuali) è talmente alta che il livello di energia consumata è significativo. Secondo i dati del Bitcoin Electricity consumption Index dell’Università di Cambridge, la struttura per la creazione di Bitcoin consuma circa 134 terawattora, cifra equiparabile al consumo di una nazione di medie dimensioni.
Cosa dicono i tecnici
Nel parere dell’economista, «le industrie finanziarie e le grandi istituzioni attive nel campo delle criptovalute hanno responsabilità ambientali, sociali e di gestione». Per queste ragioni Thedéen ha proposto di vietare parzialmente questa attività di estrazione, anche perché l’assorbimento di elettricità riguarda sempre più le energie rinnovabili. Thedéen chiede in sostanza di sostituire il sistema proof-of-wor, impiegato da Bitcoin ed Ethereum e molto dispendioso, con il protocollo proof-of-stake che a quanto pare assorbe molta meno energia. Ma si tratta di «un’operazione difficile proprio in virtù di una gestione decentralizzata», secondo il parere della direttrice dell’Osservatorio Blockchain del Politecnico di Milano Valeria Portale raccolto da Repubblica. «Il tema del consumo è reale, ma non ne farei una crociata». Secondo la professoressa, vietare questa tecnologia, anche parzialmente porterebbe a una migrazione di massa delle cosiddette «miniere», come già è accaduto con il trasferimento di molte società dalla Cina al Kazakistan.
Il Kazakistan
Il Kazakistan è il secondo più grande produttore di moneta digitale del mondo, dopo gli Stati Uniti. Qui si trova il 18% degli estrattori globali di croptovaluta. Lo scorso anno, qualcosa come 90 mila società hanno scelto questo Paese dopo essere fuggite dalla Cina a causa della stretta legata all’energia. «Una migrazione di massa», come l’ha definita la professoressa Valeria Portale. Le violente proteste delle ultime settimane hanno complicato la situazione ma il paese resta appetibile dal punto di vista energetico. In Kazakistan «la gran parte dell’elettricità viene prodotta ancora col carbone ed è un problema per l’ambiente, ma adesso, per sopperire all’enorme consumo delle farm di criptovalute, stanno studiando di alimentarle con fonti alternative: eolico, solare e anche il nucleare», spiega a Repubblica Reuben Sushman, fondatore e amministratore di Vccs, una società che mira a condurre digital mining di criptovalute.
Secono Sushman, gli imprenditori del settore scelgono il Kazakistan per tre motivi: «l’energia elettrica costa poco; il clima è freddissimo e secco, e ciò permette ai miners di ridurre i costi per i condizionatori; per il fatto non secondario che l’Aifc cui bisogna registrarsi risponde alla british common law e non alla giurisdizione ordinaria kazaka. In caso di contenzioso, è un
vantaggio». Con le violente proteste di piazza per il caro energia, il governo kazako ha interrotto la rete all’improvviso e questo ha creato molti problemi e timori per chi opera nel settore. Ma, per ora, sembra essere un rischio politico che i miners, gli estrattori di moneta digitale, sono disponibili a correre.
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