Scurdammoce o passato: all’indomani dell’incontro Salvini-Conte stamani faccia a faccia Letta-Renzi. Tutti illesi
«Enrico stai sereno». Oggi come allora, non può essere certo la calma la virtù con cui Letta incontra Matteo Renzi. Ma in virtù di una partita che si gioca ogni sette anni, «una finale di Champions League» l’ha definita il leader di Italia Viva, il segretario del Partito democratico ha dovuto incontrare anche il suo più acerrimo nemico. Stanno preparando – per usare un termine calcistico -, il biscotto che porterà Mario Draghi al Quirinale? Di primo mattino, intorno alle 8, i due si sono incontrati a Palazzo Giustiniani nell’ufficio di Renzi: Letta ha scelto di giocare fuori casa. Ma la partita del Colle è troppo importante per non andare in trasferta sul campo più scivoloso di tutti, quello su cui inciampò e che lo fece retrocedere nel 2015 dalla politica attiva all’insegnamento, per carità prestigiosissimo, al Sciences Po di Parigi.
Riconvocato durante la crisi di governo dello scorso anno per sostituire Nicola Zingaretti alla segreteria del Pd, Letta ha colto l’indicazione lasciata da Renzi, questa mattina, in un’intervista a La Stampa: «Se si porta Mario Draghi come candidato allo scrutinio segreto, lo si elegge, anche perché esporlo a una bocciatura dell’Aula significherebbe perderlo sia per il Colle, sia per il governo. E l’Italia una cosa non se la può permettere: rimettere Draghi in panchina». Un’apertura finalmente esplicita che, però, non può prescindere da un accordo politico per l’esecutivo che verrà dopo il governo Draghi. Più instabile, sì, e per questo sono da discutere insieme all’elezione che inizia lunedì 24 gennaio i margini di un patto di fine legislatura.
L’accelerazione di Letta
Al momento, il segretario dei Dem ha agito in maniera più silenziosa rispetto ai suoi omologhi. Ma ha l’esigenza di accelerare per decidere lo schema di gioco da schierare domenica 23, prima delle 17, quando dovrà dare le ultime indicazioni all’assemblea del Pd. Il segretario avrà un colloquio già nelle prossime ore con Matteo Salvini. Ieri, il capo della Lega aveva incontrato Giuseppe Conte: un altro sforzo degno di nota di questi leader costretti a mettere da parte anni di rancori. «Devo fare nomi e cognomi», fu l’esordio dell’accusa mossa dall’ex premier a Salvini e Meloni, in conferenza stampa a reti unificate. A distanza di quasi due anni, proprio per farlo un nome, gli attriti sono stati archiviati.
Ed è l’unico modo che i protagonisti di questi incroci inaspettati hanno per non essere lasciati in tribuna mentre gli altri partiti decidono chi salirà al Colle per il post Sergio Mattarella. Il leghista teme che, alle sue spalle, Silvio Berlusconi possa giocargli un brutto scherzo e intestarsi una candidatura in solitaria – o con Fratelli d’Italia – come autoricompensa per la sua mancata investitura. Che il Cavaliere, da un momento all’altro, per farsi almeno riconoscere come salvatore della patria possa dare in autonomia il suo endorsement a Draghi, è una possibilità che circola negli ambienti di destra.
Letta è preoccupato che il Movimento 5 stelle, trainato dalla corrente dimaiana, possa stringere accordi con il centrodestra relegando i Dem all’isolamento nel campo del centrosinistra. Conte ha bisogno di mostrarsi come unico interlocutore di un gruppo parlamentare che non l’ha mai riconosciuto, unitariamente, come suo leader. E Renzi, che fu il kingmaker delle passate presidenziali, portando Mattarella a essere eletto a colpo sicuro nel quarto scrutinio, sa di poter giocare in quello stesso ruolo nonostante sia trascorso un settennato.
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