Feti sepolti senza consenso, al cimitero di Roma i nomi delle donne che hanno abortito sono ancora visibili – L’inchiesta
«È giusto così. I nomi vanno tolti». E perché sono ancora ben visibili, un anno e mezzo dopo? «No, no. È stato solo un problema tecnico. La vernice usata si è scolorita». È la mattina del 20 gennaio 2022 al cimitero Flaminio di Roma. Lotto 108: qui vengono seppelliti i feti abortiti dalle donne. Spesso, come emerso un anno e mezzo fa con una serie di casi che avevano provocato una baraonda mediatica anche internazionale, all’insaputa delle donne stesse. Si tratta soprattutto di aborti terapeutici, e le donne (18 di loro hanno presentato un esposto, ma l’associazione Differenza Donna racconta di centinaia di segnalazioni) non solo in molti casi non sapevano niente della sepoltura, ma su quelle croci scoperte per caso si sono ritrovate il loro nome e cognome. In chiaro. Ora alcune persone del cimitero si aggirano per le file di croci bianche, croci di metallo, croci un po’ più vecchie di legno. Croci divelte. Croci in piedi. Croci anonime. Altre con il nome di quel bimbo o bimba mai nato. Su alcune sepolture ci sono pupazzetti e girandole. Su una, un paio di scarpine di ceramica. Su un’altra un ciuccio azzurro dentro al suo contenitore. Su tante non c’è nessun segno. Su tutte una targhetta nera con un codice. Che però, in molti casi, non copre affatto la “versione” precedente con il nome e cognome della donna: le identità sono spesso perfettamente leggibili.
Il nodo della privacy
«Siamo venuti qui per risolvere questo problema», spiegano i lavoratori del cimitero. A settembre 2020 il garante della privacy aveva aperto un’istruttoria sul caso del cimitero romano. Due mesi dopo la giunta capitolina guidata allora da Virginia Raggi – rea, secondo molte attiviste, di non aver mai detto una sola parola sul tema – aveva deliberato che le generalità delle donne non sarebbero più comparse, sostituite da codici alfanumerici. Qualcosa deve essere andato storto però, perché un anno e mezzo dopo i codici ci sono, sì, ma solo sovrascritti, lasciando in moltissimi casi ancora visibile il nome e cognome della donna che ha portato in grembo quel feto (e che in molti casi neppure sapeva che lì è seppellito). La giunta aveva anche deciso, in ottemperanza al carattere laico dello Stato, che le croci sarebbero state sostituite, impedendo l’utilizzo di simboli religiosi.
Oggi il lotto 108 è ancora una distesa di croci. Solo ed esclusivamente croci. E quei nomi? «Si è levata la vernice dietro ed è rimasta solo quella indelebile davanti. È stato un mero errore materiale che cercheremo di risolvere tempestivamente. Siamo venuti qua oggi per risolvere proprio questo problema», assicurano i lavoratori mentre analizzano le croci. Della «vernice dietro», in un anno e mezzo attiviste e attivisti non hanno rinvenuto traccia. Ma il lavoratore del cimitero ripete che «il lavoro era stato fatto. Ora risolviamo tutto. Nel momento in cui c’è attenzione sulla cosa…». Pausa. «Lo facciamo perché è giusto così», assicurano mentre ricordano che «non è possibile fare riprese, bisogna rispettare la privacy».
La battaglia legale
«Di fatto non è cambiato nulla. Non abbiamo avuto risposte né con la precedente amministrazione né con l’attuale. Con questa abbiamo avuto più confronti, sì». Francesco Mingiardi è il legale che negli scorsi mesi ha dato il via a un’azione popolare in tribunale contro l’ospedale San Giovanni, Asl Roma 1 e Ama, la municipalizzata dei rifiuti che a Roma gestisce i servizi cimiteriali, insieme a Francesca Tolino, tra le prime donne che hanno scoperto una croce col proprio nome, e Simone Sapienza di Radicali Roma. «Non in proprio ma nella loro qualità di elettori ai sensi e per gli effetti dell’art. 9 del d.lgs. n. 18.08.2000, n. 267, in rappresentanza di Roma Capitale», si legge nell’atto di citazione. Tradotto: a nome di tutti e tutte, insomma, «perché è la collettività a sentirsi lesa da quanto accaduto».
Virginia Raggi, oggi consigliera di opposizione e componente della Commissione Pari Opportunità di Roma Capitale, «non ha voluto prendere parte al processo quando era sindaca», spiega Tolino, attivista della campagna Libera di Abortire. «Ora il sindaco Roberto Gualtieri può farlo». Perché il Comune può sostituirsi ai singoli cittadini, e portare avanti questa battaglia. Una mossa che in qualche modo è anche politica, spiegano dai team legali: nessun ospedale metterebbe più in atto pratiche che portano a queste violazioni, se il Comune desse questo segnale. Segnale che non arriva, racconta ancora Mingiardi. «Certo che il sindaco vuole risolvere», dicono a Open dal Campidoglio. Ma no, al momento la decisione sul prendere parte al processo – che sarebbe contro una propria municipalizzata, tra l’altro – «non ha una risposta».
«Inaccettabili i fatti accaduti al cimitero Flaminio, dove nel 2020 sono state scoperte le tombe dei feti abortiti con le croci riportanti i nomi delle donne che hanno abortito tra le 20 e le 28 settimane», dice in una nota a Open Sabrina Alfonsi, assessora all’Agricoltura, Ambiente e Ciclo dei Rifiuti di Roma. «Per questo stiamo lavorando con l’assessora alle Pari Opportunità Monica Lucarelli a una modifica del regolamento di polizia mortuaria, che contiene a riguardo norme lacunose e non adeguate a quanto richiesto dalle normative europee in merito al rispetto della privacy, per evitare che si ripetano eventi del genere, e per sanare questa violazione del diritto alla riservatezza, che ha colpito tutte le donne coinvolte in questa vicenda». Alfonsi assicura che verrà presentata una delibera «in Assemblea Capitolina, per imporre l’uso di codici alfanumerici come identificativi dei ceppi anonimi e l’uso di registri secretati». E gli altri diritti delle donne messi in pericolo in questa vicenda? Neanche qui arriva risposta.
Com’è cominciata
«Mi hanno seppellita. Crocifissa e seppellita», racconta Francesca Tolino. È stata tra le prime a denunciare, nel 2020. Aveva abortito un anno prima per una grave malformazione del feto. Un incubo che lei, oggi, vuole raccontare. Da quel momento vuole partire perché è lì, sostiene, che tutto comincia. «Il cimitero dei feti è solo l’ultimo capitolo: in Italia le donne non sono libere di abortire, a causa dell’obiezione di coscienza. E quando ci riescono, queste interruzioni di gravidanza diventano un incubo», racconta a Open.
Ci mette dieci giorni ad abortire. Dieci giorni in cui quella bambina continua a muoversi dentro di lei. Il racconto di Francesca è lucido e terribile. Partorisce, di fatto, ma senza alcun aiuto. Anzi, tra gli insulti. Chiederà a tre persone diverse dell’ospedale che fine farà quel feto che lei riesce a vedere bene in sala operatoria. Benissimo. «Signora, ma non si preoccupi. A cosa va a pensare?». Passerà l’anno successivo a riprendersi dal trauma. Racconterà di quella che definisce “tortura” ai giornali. Ma poi il culmine: dopo la denuncia di un’altra donna, torna a domandarsi che fine ha fatto il feto. E scopre una tomba a suo nome al cimitero di Roma Flaminio Prima Porta.
Come funziona (in teoria) la normativa
Come funziona la normativa? Secondo il regolamento di polizia mortuaria, in caso di aborti – di qualunque tipo – dalle 20 alle 28 settimane di gestazione viene disposta la sepoltura del feto. «I permessi di trasporto e di seppellimento sono rilasciati dall’unità sanitaria locale». E «i parenti o chi per essi sono tenuti a presentare, entro 24 ore dall’espulsione o estrazione del feto, domanda di seppellimento alla unità sanitaria locale accompagnata da certificato medico che indichi la presunta età di gestazione ed il peso del feto». Quindi per le sepolture (che diventano a carico della collettività) è necessaria una richiesta esplicita dei «parenti o chi per esso». In caso di mancanza di questa richiesta, in teoria, il feto deve essere smaltito dall’ospedale. Con un costo per la struttura stessa. Il regolamento aggiunge anche che «a richiesta dei genitori, nel cimitero possono essere raccolti con la stessa procedura anche prodotti del concepimento di presunta età inferiore alle 20 settimane». Senza questa richiesta infatti, i feti di meno di 20 settimane verranno trattati dall’ospedale come rifiuti organici.
In tribunale
Dall’accesso agli atti che Francesca e i suoi legali hanno fatto chiedendo la copia della richiesta di sepoltura e dell’autorizzazione, emerge un modulo in bianco e una richiesta firmata da un operatore sanitario. L’ospedale San Giovanni, a cui Open ha chiesto un riscontro su quanto accaduto, scrive: «Come ben comprenderà in considerazione del fatto che è in corso un procedimento giudiziario sulla vicenda, la Direzione di questa Azienda non può allo stato rilasciare dichiarazioni/informative in merito». Né risponde alla domanda – non dipendente dal procedimento – su quale sia la prassi oggi, e se sia cambiato qualcosa. L’Ama, nel rispondere alla richiesta di accesso agli atti, ricorda di procedere «alla sepoltura tramite inumazione esclusivamente sulla base dei dati identificativi» presenti nella documentazione prevista dalla legge – ovvero la Asl «con l’autorizzazione al trasporto e seppellimento» e la «richiesta di prelievo dei prodotti abortivi formulata al servizio di polizia mortuaria di Ama e corredata da autorizzazione Asl al trasporto e sepoltura» da parte dell’ospedale dove avviene l’aborto.
Sull’aspetto penale di tutta questa intricata vicenda è anche in corso una causa in seguito all’esposto di 18 donne affiancate dall’associazione Differenza Donna. Il 20 gennaio «si è celebrata l’Udienza camerale che riguarda l’opposizione all’archiviazione che abbiamo presentato», racconta a Open l’avvocata di Differenza Donna Ilaria Boiano. «La procura nella richiesta di archiviazione, insieme all’autorità garante della privacy, accerta un trattamento illecito su dati sensibilissimi», dice amaramente. «E in tutta la filiera, a partire dalle aziende ospedaliere fino alla sepoltura e all’esposizione del nome. Tuttavia la procura ha ritenuto e ribadito in aula la non sussistenza dell’elemento soggettivo, cioè della consapevolezza della volontà di violare le norme. Desunta anche da una normativa di difficile comprensione», racconta. Dice infatti la procura che la normativa a tutela della privacy «è quanto di più difficile esista nel nostro ordinamento e per questo non si può esercitare l’azione penale nei confronti delle persone indagate».
La legge sulla privacy è assai complessa: è possibile quindi che i soggetti coinvolti non la conoscano. Questa la tesi. «Dalle indagini emerge che stiamo parlando dell’ennesimo e ultimo atto di una trafila molto dolorosa che tutte le donne subiscono se abortiscono volontariamente o a causa di salute», chiosa Boiano. «Un trattamento umiliante, denigratorio e dolorosissimo per le donne, lasciate sole nella sofferenza più totale a causa dell’obiezione di coscienza esercitata spudoratamente da tutti gli operatori sanitari che intervengono». E alla fine, l’ulteriore umiliazione: «Bisogna avere contezza della sofferenza causata dalla scoperta di quelle tombe», attacca l’avvocata. «Le donne non riescono neanche a parlarne».
L’associazione e le donne che hanno denunciato hanno chiesto al giudice per le indagini preliminari di andare avanti. Di non archiviare. «E abbiamo richiesto un approfondimento investigativo. La domanda di giustizia di queste donne non ha nulla di ideologico. È ideologico il trattamento da loro subito, piuttosto: denigrate e esposte al linciaggio perché hanno abortito. Non solo: Abbiamo anche sottolineato che si tratta di trattamento massivo di dati personali e sensibili su larga scala», conclude Boiano. «Nel 2022 non possiamo pensare che società come Ama e le aziende ospedaliere non abbiano le competenze per trattare tali dati, perché dovremmo allora preoccuparci tutti e tutte al di là delle procedure sanitarie», conclude l’avvocata.
Non solo privacy
I codici sulle tombe, al posto del nome e cognome della madre, non sono una soluzione sufficiente, però, avvertiva Marta Loi, la prima donna che aveva denunciato dopo aver scoperto una tomba con la sua identità in chiaro. Lei aveva abortito per scelta. Scoprendo così che non solo vengono seppelliti feti «provenienti da interruzioni spontanee» ma anche, come nel suo caso, «da interruzioni volontarie di gravidanza nel secondo trimestre». Sempre all’insaputa della donna. Marta aveva scelto di abortire. Come tutelare l’autodeterminazione e i diritti delle donne (non solo di privacy) qui violati?
«Con Radicali italiani e Radicali Roma abbiamo cominciato un lavoro di raccolta di dati di un anno, in piena pandemia», racconta Francesca Tolino. Un susseguirsi di riunioni Zoom «per mettere insieme i pezzi e poi lanciare la campagna che si chiama Libera di abortire e che fondamentalmente chiede che in questo paese si possa abortire in modo civile, oltre che sicuro», dice l’attivista. Tolino è stata ricevuta due volte al ministero della Salute «senza mai incontrare però il ministro Roberto Speranza», racconta ancora. «Noi non solo lamentiamo un mal funzionamento, ma proponiamo risposte. La prima volta sono stata ricevuta dalla sottosegretaria Sandra Zampa, che ha escluso un ‘disegno nazionale’ dietro alla vicenda del cimitero dei feti. Mi ha trattata con cordialità e come se la mia fosse una storia isolata e sfortunata. Negando che esistano “obiezioni di coscienza” di struttura (che la legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza vieta). Se alla fine sono riuscita ad abortire, ha detto la sottosegretaria, in fondo non c’era nessuna obiezione di struttura, no?», chiosa l’attivista. La seconda volta «abbiamo occupato lo spazio sotto al ministero con tanto di maxi-poster della campagna e poi siamo state ricevute da un funzionario che ci ha garantito che saremmo state richiamate per un incontro con Speranza a dicembre. Stiamo ancora aspettando. Abbiamo richiamato settimana scorsa ma il Covid blocca tutto. Il Covid è il grande alibi».
Il punto di vista delle associazioni che si occupano della sepoltura dei feti
«Quello che è successo non fa bene a nessuno. A chi crede, a chi non crede», dice l’avvocato Francesco Mingiardi mentre ci allontaniamo dal lotto 108. «Non mi riconosco nel simbolo e mi manda ai matti pensare che qualcuno ha fatto un rito religioso e ci ha messo una croce», si sfoga ancora Francesca Tolino ripercorrendo la sua storia. «Ci sono infatti varie associazioni che si occupano della sepoltura facendoci un funerale. Tu sei la sciagurata donna che non solo ha abortito, ma che non si occupa poi di queste cose. Lo fanno loro per te».
Un’associazione che si occupa di sepoltura dei feti è per esempio “Difendere la vita con Maria”. «Noi lo facciamo solo ed esclusivamente se ci sono convenzioni o su chiamata dei genitori», spiega a Open Emiliano Ferri, vicepresidente nazionale. Anche lui avvocato, racconta che da cinque anni «laddove abbiamo le convenzioni (nel nord Italia, in Puglia, nelle Marche e adesso ne stiamo chiudendo in Sicilia), le rinnoviamo o ne facciamo di nuove con il consenso informato alla madre e ai genitori». Consenso che comunque deve essere sottoposto dall’ospedale, sottolinea. «Dove non abbiamo convenzioni – per esempio qui a Roma – spesso vengo contattato direttamente dalla famiglia interessata». Che viene dunque affiancata dall’associazione «nelle procedure di richiesta dei resti, con l’agenzia funebre e con la sepoltura».
«Le sepolture che facciamo sono identificate da un codice», dice Ferri. «Per esempio a me non piace la dicitura usata al Giardino degli angeli al Laurentino, dove sulle tombe c’è scritto “feto di XY” con il nome e il cognome della madre che ha richiesto la sepoltura», dice ancora. A Roma «negli ultimi 3-4 anni abbiamo accompagnato una cinquantina di famiglie e una ventina in tutta Italia. Con chiamata diretta appunto». Ferri conosce bene, dice, la vicenda di Prima Porta di un anno e mezzo fa. «Un funzionario dei cimiteri di Roma mi aveva raccontato di aver ricevuto chiamate da tante famiglie», prosegue. «Alcune lo volevano “menare” per quanto scoperto. Ma altre gli hanno chiesto se potevano riesumare i resti e portarli nella cappella di famiglia. È una storia che va risolta per il bene di chi non crede, ma anche di chi crede».
Testo, riprese e montaggio Angela Gennaro
Video Editing e grafiche Vincenzo Monaco
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