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Sputnik V è più efficace di Pfizer contro Omicron? I dubbi sullo studio italo-russo allo Spallanzani

Ecco perché resta ancora tanto lavoro da fare per comprendere la reale efficacia del vaccino russo

Il 20 gennaio scorso è stata annunciata la pubblicazione di un preprint riguardante lo studio sull’efficacia di Sputnik V, condotto presso l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani. Hanno partecipato anche i ricercatori del Centro Gamaleya, che produce il vaccino russo contro il nuovo Coronavirus, con l’appoggio del fondo sovrano locale RDIF. Il vaccino risulterebbe «meglio di Pfizer contro la variante Omicron». Secondo quanto riportano le agenzie di stampa, questo lavoro dimostrerebbe che «due dosi di Sputnik V forniscono titoli medi geometrici (GMT) di anticorpi neutralizzanti del virus contro la variante Omicron di COVID rispetto a due dosi di vaccino Pfizer (2.1 volte più alto in totale e 2.6 volte più alto 3 mesi dopo la vaccinazione)». Risultati che appaiono incoraggianti, se non sbalorditivi. C’è un problema, soprattutto di metodo.

Le critiche sullo studio italo-russo

Enrico Bucci, adjunct professor presso la Temple University di Philadelphia, titolare della società di revisione degli articoli scientifici Resis srl, ha esposto nel suo blog Cattivi scienziati una analisi su questa ricerca, traendone anche una versione divulgativa in un articolo apparso su Il Foglio. Solitamente il punto più spinoso di studi come questi sono i dati, dove gli addetti ai lavori potrebbero coglierne con chiarezza gli eventuali limiti. Stavolta viene contestato il metodo utilizzato nel confrontare i vaccinati da Sputnik con quelli che hanno ricevuto Pfizer, partendo dalla selezione degli individui vaccinati: «Paragonare per esempio vaccinati da Sputnik da tre-sei mesi con vaccinati da Pfizer/BioNTech da sei mesi è ovviamente scorretto», continua Bucci, «perché il primo gruppo conterrà anche molti vaccinati da meno di sei mesi, che quindi sono attesi avere anticorpi più elevati rispetto a quelli vaccinati da sei mesi».

Non c’è soltanto la contestazione relativa alla scelta degli individui considerati nello studio: «Campioni di 17 individui (come quello usato per il vaccino Pfizer/BioNTech) sono ovviamente sottodimensionati e insignificanti. In aggiunta, non vi è un corretto controllo per fattori confondenti come malattie pregresse e distribuzione di età nei due gruppi paragonati; anche questo elemento invalida alla radice ogni successiva considerazione». Dati che, secondo Bucci, se «presentati in quel lavoro non solo non supportano affatto la conclusione annunciata in conferenza stampa, ma addirittura sono privi di significato, a causa del disegno stesso dello studio». Vi sono poi altre questioni “logistiche”, in quanto non è chiaro nel documento da dove provengano i campioni raccolti per realizzare lo studio.

Il caso del finanziamento dello studio

Secondo quanto riportato su Medrxiv, alla voce «Funding Statement» si legge un chiaro ed evidente «This study was funded by Russian Direct Investment Fund». Ciò significa che alla presentazione del preprint gli autori avrebbero dichiarato che lo studio è stato finanziato dal fondo sovrano russo.

L’agenzia Dire, che aveva riportato tale informazione, pubblica il seguente comunicato con le precisazioni dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani:

Per lo studio condotto in collaborazione con l’Istituto Gamaleya, lo Spallanzani ha messo in campo le risorse proprie non riferibili a finanziamenti esterni. I risultati sono quelli indicati nell’ultima nota ufficiale che evidenzia come la priorità riguardi uno degli aspetti più volte sottolineato dall’Istituto come l’aggiornamento dei vaccini rispetto alle varianti.

Precisazioni che, tuttavia, non escludono l’intervento del fondo russo per il finanziamento dello studio. Attualmente si comprende che lo Spallanzani si sia auto sostenuto, mentre i colleghi russi sarebbero stati supportati da Mosca.

La lunga attesa per l’approvazione dell’Ema (che aspetta i dati)

Resta evidente l’interesse dell’Istituto italiano per un vaccino che non riesce a ottenere l’approvazione dei principali enti sanitari, in primis la nostra Ema. Il motivo? Mancano i dati. Già nell’agosto 2020, quando Vladimir Putin lanciava in pompa magna lo Sputnik V, Svetlana Zavidova, a capo dellAssociazione russa delle organizzazioni di sperimentazione clinica, spiegava a Nature che «è ridicolo, ovviamente, ottenere l’autorizzazione sulla base di questi dati». Allora mancava ancora una sperimentazione di fase 3, ma questo non impedì Mosca di fare annunci esorbitanti. «Non credo che il nostro sistema di monitoraggio della sicurezza sia il migliore», aggiunse la scienziata. Nel frattempo, e in mancanza dell’approvazione dell’agenzia europea, erano circolate notizie volte a screditare gli altri vaccini in favore di Sputnik V.

I precedenti poco trasparenti

Nell’aprile 2021 era cominciata la collaborazione con lo Spallanzani attraverso un accordo con Gamaleya, per la sperimentazione del vaccino. Nello stesso periodo, grazie a un whistleblower, siamo stati in grado di analizzare diversi casi di eventi avversi associati a Sputnik V, noti alla farmacovigilanza russa ma non di pubblico dominio come avveniva con AstraZeneca o per altri vaccini anti Covid-19. Intanto in Slovacchia, dove l’ex premier Igor Matovic aveva acquistato due milioni di dosi all’insaputa del Governo, i responsabili della Sanità denunciano un fatto piuttosto grave: le dosi risultato avere un contenuto dalle caratteristiche diverse da quelle elencate nello studio pubblicato dai ricercatori del Gamaleya su The Lancet. Quello che presentava il vaccino come efficace al 92%, tanto per intenderci.

Ed è proprio fin dal principio che emersero notevoli perplessità, tanto che nel settembre 2020 un gruppo di 40 scienziati chiesero chiarimenti ai colleghi russi con una lettera aperta rilanciata da Nature, ospitata nel blog di Enrico Bucci, Cattivi Scienziati. A seguito della pubblicazione, l’esperto italiano si ritrovò per questo nel mirino di una macchina del fango da parte di diversi media vicino a Mosca. La risposta degli scienziati russi risulta ancora non pervenuta. Effettivamente i risultati dello studio di The Lancet lasciavano spazio a non poche perplessità, che lo stesso Bucci aveva elencato in un post dell’8 settembre dall’emblematico titolo «Dubbi sul vaccino russo».

Molti hanno osservato – continua Bucci su Il Foglio – che lo studio è condotto su un numero insolitamente piccolo di volontari. In realtà, si tratta di due studi indipendenti, condotti su due formulazioni diverse – una in soluzione e una liofilizzata – dello stesso vaccino, ciascuna sperimentata su solo 20 volontari: davvero un campione poco significativo per trarre conclusioni diverse da un incoraggiamento a continuare la sperimentazione.

Leggendo il paper si trovano inoltre modelli ripetitivi e i valori descritti sembrerebbero duplicati. Cosa piuttosto improbabile in misurazioni non correlate. Eppure quei 40 scienziati non volevano accusare i colleghi russi di cattiva condotta. Chiedevano solo che fossero messi a disposizione i dati originali, per fare chiarezza. Sulla stessa rivista apparve articolo firmato da Ewen Callaway (autore assieme a David Chyranoski di diverse importanti analisi sul SARS-CoV2), dove vennero raccolte diverse critiche da parte di esperti internazionali. Un articolo simile venne pubblicato da Jon Cohen su Science.

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