Quirinale, sul no a Draghi si riaccende la fiamma gialloverde. Ma la carta coperta del centrodestra è Casellati
Il Parlamento non è la Bce. Il Parlamento non è Palazzo Chigi. E i meccanismi che muovono l’azione parlamentare non puoi studiarli. «Devi viverlo, il Parlamento, per capire come funziona davvero e sperare di vincere la partita più difficile, quella del Quirinale». A dirlo, quando ormai a Montecitorio è rimasto soltanto Roberto Fico a promulgare la seconda fumata nera e qualche sparuto gruppetto di parlamentari, è un grande elettore del centro. L’area politica che più ha sponsorizzato Mario Draghi nelle prime fasi delle negoziazioni e che adesso, come la maggior parte dei delegati, sta realizzando che il premier non è stato in grado di governare la partita più difficile, quella degli equilibri istituzionali, del rispetto dei giochi di forza con i partiti.
Palazzo Chigi, 24 gennaio. Le persone più vicine a Draghi gli consigliano di fare la sua mossa prima che la chance quirinalizia sfugga. Allora inizia la fitta rete di colloqui con i leader delle formazioni politiche. Quegli incontri, il giorno dopo, sono raccontati dai grandi elettori come «freddi, vitrei». Draghi non ha alzato la cornetta del telefono per trattare. Draghi ha dato la sua disponibilità, punto. Che, tradotto in questo contesto, altro non è che un’autocandidatura. A Open riportano questa frase detta dal premier in un confronto con uno dei leader politici più scettici all’investitura di Draghi: «Ritieni davvero che non sarei un buon presidente della Repubblica?». Una forzatura che, seppure smentita nella sua formulazione, permane nella scelta di sondare i partiti per proprio conto il giorno dell’inaugurazione dei giochi del Quirinale.
I partiti gli rimproverano l’indisponibilità a valutare insieme i possibili risvolti di una sua abdicazione a Chigi. Semplicemente, riassume un grande elettore del Pd, «Draghi si è mosso con superbia e non ha preparato il terreno per una sua candidatura. Perché questa o è boria o è ingenuità». Il leader della Lega «non ha ceduto all’ingerenza», spiega un suo fedelissimo. Il secondo gruppo parlamentare più corposo – anche Giancarlo Giorgetti, amico del premier, sembrerebbe non avere più cartucce -, non voterà per l’ex governatore della Bce. Giuseppe Conte – gli va riconosciuto – uno dei primi a opporsi al passaggio diretto di Draghi da Palazzo Chigi al Colle, è tornato a ribadire nel corso della giornata: «Meglio che resti alla presidenza del Consiglio». E anche il primo gruppo parlamentare, escludendo i dimaiani pro Draghi, non voterà per il premier.
Buona parte dei parlamentari Pd e dei renziani cominciano ad ammettere che il passaggio diretto dalla presidenza del Consiglio a quella della Repubblica risulta, dal punto di vista istituzionale, quantomeno sconveniente. Game over. Matteo Salvini subodora che il centrodestra, eliminato dallo scacchiere il nome di Draghi e, con Sergio Mattarella che procede speditamente con il trasloco, torna ad avere la possibilità di decidere la partita del Colle come non è mai accaduto nella Seconda Repubblica. Stralcia dalla rosa proposta pubblicamente i nomi dei veri candidati. Il più forte è quello di Elisabetta Casellati. Donna, già presidente del Senato e che, se dovesse essere promossa al Colle, lascerà libera la succulenta casella della seconda carica dello Stato. Chi le succederebbe alla presidenza di Palazzo Madama? «È evidente che sarebbe una pedina di scambio con il gruppo di grandi elettori che ci aiuterà nell’operazione», sorride un forzista.
La scommessa è eleggerla al quarto scrutinio, con il quorum che si abbasserà a 505 voti. I parlamentari di Italia Viva, per il momento, non la considerano una proposta accettabile. Anche se alcuni grandi elettori avevano fatto trapelare, nei giorni scorsi, che Matteo Renzi avesse delle mire proprio per il ruolo di presidente del Senato. Comunque, è altrove che la coalizione di centrodestra guarda: pescare un centinaio di schede – scarse – nel Movimento 5 stelle. I «no» di Salvini e Conte a Draghi sembrano aver riacceso la vecchia fiamma gialloverde, quella del primo governo di questa legislatura. Enrico Letta trema: sconfessato dalla sua pattuglia parlamentare contraria alla strategia draghiana del segretario, adesso teme che lo sparring partner del campo progressista faccia il furbo nel segreto dell’urna, lasciandolo fuori dai giochi. La proposta del centrodestra non può passare, «cerchiamo un nome condiviso», torna a dichiarare. Forse troppo tardi, perché come candidato unitario resta solo Mattarella, ma in ultimissima istanza. Mentre Draghi, come qualunque altro italiano eleggibile al Quirinale, è stato bruciato.
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