Giornata della Memoria, parla Lucy Salani, la donna trans più anziana d’Italia, sopravvissuta a Dachau: «Ho 97 anni ma sono morta allora»
Quasi un secolo di storia sul corpo, molte vite vissute: bambino, soldato, deportato, sopravvissuto, poi donna, tappezziera, ballerina, madre adottiva, attrice, prostituta, testimone. Luciano Salani è nato a Fossano, in provincia di Cuneo, nel 1924 da una famiglia emiliana. Fin da piccolo si sente una femmina in un corpo che non gli appartiene, ma sono anni durissimi per fare coming out: la parola “omosessuale” non si poteva pronunciare, figuriamoci “transessuale”: «Mi sono sempre sentita femmina. Mia madre era disperata», racconta chi con quel corpo ha convissuto, tra discriminazioni e umiliazioni, per quasi sessant’anni di vita e di lotte per affermare la propria identità, fino a quando in una clinica londinese è diventato Lucy: negli Anni 80, dopo aver conosciuto l’inferno della deportazione nazista ed essere sopravvissuto al campo di Dachau, decide di affrontare l’operazione di cambio di sesso.
Lucy Salani, oggi 97 anni, è la donna trans più anziana d’Italia e una delle pochissime sopravvissute al campo tedesco di Dachau (il primo campo di concentramento istituito dal governo Nazional Socialista nel 1933) dove è stata tra il novembre del 1944 e il maggio del ’45. A Dachau si salvò perché era entrata come soldato, non come omosessuale. Negli anni Quaranta venne chiamata ad arruolarsi: «Quando mi mandarono a fare soldato, dissi subito: “Ma sono omosessuale!”. Non mi credettero: «Vai, vai, dicono tutti così!”», racconta Lucy che ricorda con dolore ancora vivo quei sei mesi di deportazione: «Speravo che ci bombardassero, per mettere fine a tutto. Ci hanno denudati, pelati e disinfettati con la creolina. L’inferno di Dante in confronto è una passeggiata». La sua mansione era mettere delle targhette con dei numeri ai cadaveri, caricarli su un carro e portarli ai forni crematori. Durante la liberazione da parte dell’esercito americano venne colpita a una gamba da un proiettile. «Vivere per me è un miracolo, sono già morta allora».
La sua storia viene raccontata nel documentario C’è un soffio di vita soltanto, firmato dal duo di registi Mattero Botrugno e Daniele Coluccini, al cinema dal 10 gennaio 2022 e selezionato alla 39esima edizione del Torino Film Festival. Oggi Lucy Salani vive nella periferia di Bologna, dove è assistita da volontari diventati amici – come Said, quarantenne marocchino con cui vive, che considera un nipote – e guida ancora l’auto. Resta una delle poche testimoni della storia del Novecento e di quello che è accaduto nei campi di sterminio tedeschi. A quasi cento anni ha ripercorso la sua vita, decidendo di ricordare, per gridare che «la cattiveria umana esiste, ed è infettiva più del virus». E che non c’è niente di più prezioso della propria identità: «Con il giudizio degli altri ho imparato a convivere».
Cosa ricorda dell’arrivo nel campo di Dachau?
«Un lungo, interminabile viaggio. Il Generale Albert Kesserling mi diede la grazia e andai a Verona e poi a Bernau in un campo di lavoro. Lì insieme con un compagno di prigionia fuggimmo e ci attaccammo sotto ad un treno sicuri di andare verso l’Italia. Purtroppo non fu così: ci ritrovammo a Berlino e lui fu ucciso. Io, invece, trascinata e legata come un animale su un carro merci. Destinazione: Dachau».
Cosa non è mai riuscita a dimenticare di quello che ha visto?
«L’interminabile fila di cadaveri ammassati sopra dei carretti pronti per essere cremati. Con i miei occhi ho visto persone vive essere buttate nei forni. Io avevo il compito di mettere delle targhette con i numeri sui cadaveri».
Come si sopravvive, e come si riesce a vivere una vita piena come la sua, dopo aver vissuto in un campo nazista?
«Si sopravvive perché non c’è altra alternativa. E perché vale sempre la pena di lottare per affermare la propria identità. La vita può nascondere anche tante sorprese piacevoli: l’amore, la famiglia, gli amici che ti fanno dimenticare, anche solo per un attimo, tutto quello che hai subito».
Cosa crede che l’abbia salvata?
«Fare molte esperienze. Dopo essere uscita viva da Dachau mi sono scatenata, ho vissuto intensamente. Ho iniziato a lavorare per una compagnia facendo spettacoli di cabaret, viaggiavo il più possibile. Ma l’ombra di quel luogo non mi ha mai abbandonata. In qualche modo mi sento come se fossi già morta a Dachau, quindi la vita che ho avuto l’opportunità di vivere è stata comunque un miracolo, anche se ho subito molta discriminazione. Ho cercato di vivere vicino alle persone che mi volevano bene, rimanendo libera, anche se a tanti non andava bene chi io fossi».
Come ricorda la sua infanzia da bambino?
«La mia famiglia mi ha indirizzato a vivere un’infanzia da maschietto, ma io non mi sentivo capita. Già da bambino amavo le bambole: ricordo che una notte distrussi un cavallino a dondolo che mi avevano regalato».
Ricorda la prima volta che sentì parlare di “omosessualità”? Che anni erano?
«Tra gli Anni 30 e 40 sentii per la prima volta la parola “omosessuale”, ma poche persone la pronunciavano. Ricordo gli insulti che si ricevevano. All’epoca io mi definivo “omosessuale” anche se non la reputavo la definizione corretta: a me piacevano gli uomini ma non mi sono mai sentita un uomo».
Quando da molto giovane ha raccontato alla sua famiglia di sentirsi una donna c’è stata una rottura profonda tra voi.
«Fu un momento molto difficile per me. Il mio punto di riferimento è sempre stata mia madre, l’unica che dopo mille litigi mi ha accettata per quello che ero. Avevo due fratelli che ho cresciuto con grande amore ma entrambi si sono rifiutati di chiamarmi “Lucy”, per loro dovevo rimanere per sempre il loro fratello Luciano. Oggi ho solo un fratello in vita con cui ho un buon rapporto. Ma in passato non è stato così».
Però non ha mai voluto cambiare nome.
«No, ho scelto di tenere quello che mi hanno dato i miei genitori. Chiamarmi Luciano non cambia di certo la mia identità».
Dopo un periodo a Bologna, all’inizio degli Anni 70 si è trasferita a Torino dove ha iniziato a lavorare in una tappezzeria. Che anni sono stati?
«Mia madre e mio padre non mi accettavano e i miei fratelli credevano che le loro fidanzate avrebbero pensato che sarebbero diventate come me. Ho detto loro: “Mi tolgo dai c…”. E così sono andata a Torino a lavorare. All’inizio dormivo in macchina, poi quando ho cominciato a guadagnare di più ho preso una casa e lì ho vissuto degli anni indimenticabili, liberi».
A quasi 60 anni, a metà degli Anni 80, ha deciso di sottoporsi all’intervento di riattribuzione chirurgica di sesso. Quanto sono cambiate la sua vita e la sua sessualità?
«Decisi di accompagnare due amici che volevano operarsi in Inghilterra. Una volta lì mi convinsi di fare anche io l’operazione. Prima di chiudere gli occhi non dimenticherò mai la scritta “man” sul separé. Quando mi svegliai comparve magicamente la scritta “woman”. Che emozione! Finalmente potevo essere ciò che volevo. Dopo l’intervento la mia vita è cambiata molto. Non ho solo bei ricordi però».
Cioè?
«Il periodo post operazione fu molto doloroso. Erano altri tempi e, purtroppo, non veniva data molta attenzione alla ricostruzione della sensibilità dei genitali. Ho dovuto rinunciare alla perdita di piacere ed è stata una grande sofferenza. Se potessi, oggi, non lo rifarei».
Ottant’anni dopo il suo coming out, in Italia si discute ancora di diritti civili. Ha seguito il dibattito su ddl Zan, il disegno di legge contro l’omotransfobia, e la bocciatura in Senato?
«Sì, ho seguito un po’ la vicenda, ma non ho fiducia della classe politica italiana. Ognuno pensa alla propria propaganda, ai voti di scambio e ai propri interessi. In un posto civile quella legge sarebbe stata approvata subito, senza se e senza ma».
In Un Soffio di vita soltanto ha raccontato di essersi prostituita. In quegli anni era l’unico modo per le persone transessuali di mantenersi?
«Sì, è stata una necessità perché le persone come me, per colpa dei pregiudizi della gente, non riusciva a trovare un lavoro. Nonostante spesso le stesse persone che criticavano me le ritrovassi la notte come clienti. La prostituzione comunque è qualcosa di umiliante, non di certo una salvezza».
Uno dei momenti più felici della sua vita?
«Sicuramente i momenti con Patrizia, mia figlia. Non era mia figlia biologica, ma un’adolescente rimasta orfana che è venuta a vivere a casa mia. L’ho cresciuta io. Lei mi chiamava “mamma” e per me era come una figlia. In tutte queste vite, sono stata anche madre».
Quanti amori ha vissuto?
«Ho avuto diversi fidanzati, sia da giovane, sia quando ero più grandicella. Conservo molti bei ricordi. Poi qualcuno mi ha lasciata, io ho lasciato a volte, qualcun altro è morto. È la vita».
A 96 anni, come si vede nel documentario, è tornata a Dachau. Che significato ha avuto tornare in quel luogo, molti decenni dopo, da sopravvissuta?
«È sempre difficile rivedere Dachau, quel luogo sa di sofferenza. Ci sono tornata tre volte e, ogni volta, rivedo davanti ai miei occhi quelle orribili scene. Ma non posso e non voglio dimenticare perché ho molto rispetto per la Memoria».
Oggi 27 gennaio è la Giornata della Memoria. Che cos’è per lei?
«La memoria è un dono, un’eredità di cui dovremmo far tesoro. L’ho fatto io in passato e ora molte persone lo stanno facendo con la mia storia e questo mi dà speranza. Senza la memoria la nostra comunità commetterebbe ancora più facilmente gli errori del passato».
La memoria purtroppo non ha valore per tutti: un assessore toscano nei giorni scorsi ha paragonato le regole anti Covid stabilite dal governo al nazismo.
«Finché certi discorsi verranno fatti ancora in luoghi istituzionali, saremo molto lontano dall’avere una speranza. Mi auguro che la memoria e il lavoro delle nuove generazioni potrà salvare la nostra comunità».
Dopo quello che ha visto a Dachau, pensa che valga sempre la pena vivere?
«Oggi, arrivata a quasi cento anni forse no, per me non vale più la pena, ho visto già tutto sia nel bene che nel male, ed è tempo per me di esplorare altri mondi».
Quante vite ha vissuto, Lucy?
«Decine di vite diverse: sono stato bambino, figlio e figlia, soldato, disertore e prigioniero, madre, prostituta e amante. Ma qualsiasi persona sia stata, posso dire con convinzione di essere stata sempre me stessa».
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