Storia di Silvia, che ha trovato giustizia per la morte della sorella per Aids: «Il suo ex non disse mai di essere sieropositivo»
Una storia di giustizia, ma anche di dolore senza fine. Silvia Gambadoro ha 54 anni, è messinese, fa l’avvocata e pochi giorni fa ha visto la condanna a 22 anni di Luigi De Domenico, ex compagno della sorella morta di Aids il 18 luglio 2017. Da lui, padre di suo figlio, contagiata. De Domenico, nascondendo la sua sieropositività, l’ha condannata a morte e all’impossibilità di ricevere cure adeguate: per Stefania, infatti, ci sono voluti quasi due anni per arrivare alla diagnosi corretta (e su questo c’è un capitolo ancora aperto, racconta oggi Repubblica: quello sulla colpa dei medici – due sanitari, un ematologo e un reumatologo – rinviati a giudizio per omicidio colposo perché non riconobbero la malattia).
La condanna
I 4 anni e mezzo di battaglia legale di Silvia sono finiti pochi giorni fa con la condanna, da parte della Corte d’Assise di Messina, di De Domenico, 58 anni: aveva nascosto all’ex compagna, da cui aveva anche avuto un figlio, di avere l’Hiv all’ex compagna. Anche Stefania, racconta la sorella, era avvocata: laureata col massimo dei voti, specializzata in Criminologia e con un master alla Luiss «Ci univano la passione per il lavoro e per la criminologia, che studiavamo insieme, anche se aveva 5 anni meno di me», racconta Silvia. A 33 anni Stefania, nel 2005, mette al mondo un bambino, nato dalla relazione con Luigi. La relazione finisce e lei si rimbocca le maniche. «Era una madre fantastica e un’ottima avvocata», racconta la sorella. Dieci anni dopo inizia ad avere problemi di salute. Disturbi e spossatezza. Si parla di anoressia, poi di leucemia. Non è così. «Era arrivata a pesare 36 chili, era irriconoscibile. Passavo le giornate a fare ricerche su internet per capire quale fosse il problema. La risposta era sempre la stessa: mia sorella aveva l’Aids. Non ci potevo credere. E invece…», dice la sorella. Si arriva a capire solo nel 2016 che si tratta di Aids, a Messina: sono passati nel frattempo due anni di esami e ricoveri e soprattutto di mancate cure. La morte arriva il 18 luglio 2017: Stefania ha 45 anni.
La battaglia di Silvia
E qui parte la battaglia legale di Silvia. «Avevo il cuore in pezzi. Ricordo che un giorno, dopo la morte di Stefania, a una persona che mi chiedeva cosa l’avesse uccisa, ho risposto: un linfoma. Subito dopo mi sono sentita uno schifo. E ho capito che l’unica possibilità che avevo era rimboccarmi le maniche e scoprire la verità. Da allora, non ho più mentito sulla causa della sua morte», dice Silvia., La domanda a cui vuole rispondere è sempre la stessa. Chi ha passato l’Aids a sua sorella, che aveva avuto solo due relazioni? «Ho iniziato a indagare. E mi sono convinta che l’untore doveva essere il padre di suo figlio». Lo chiama, alla fine del 2016. «Dopo la diagnosi di Aids, mi ero fatta coraggio e avevo telefonato a Luigi. Gli chiesi senza giri di parole se fosse sieropositivo, ma lui negò. Eppure sapeva che Stefania stava male. E ho scoperto in seguito che lui, a quel tempo, aveva già iniziato a curarsi», racconta secondo la ricostruzione di Repubblica. Dopo un mese dalla scomparsa di Stefania sua sorella presenta la prima denuncia: «I miei legali sono stati fantastici. Mi hanno suggerito di chiedere un test filogenetico».
Bonaventura Candido è stato accanto ai famigliari in questi anni: «Ho mostrato ai giudici una gigantografia di Stefania: pesava 36 chili, era stesa sul divano. Abbiamo avuto giustizia, ma nessuno può dire di avere vinto». Qualche tempo dopo Silvia riceve una lettera anonima: è una donna che racconta di avere scoperto la propria sieropositività dopo una relazione con Luigi. Silvia riesce a risalire alla sua identità incrociando dati e racconti della sorella. Scava a fondo. «È venuto fuori che, tra il 1990 e il 2019, ben 5 donne che avevano avuto una relazione con De Domenico sono poi risultate sieropositive. E due sono morte di Aids: una era mia sorella». La verità, ora? «L’ho fatto per Stefania, per i nostri genitori, e per mio nipote, che è stato costretto a crescere troppo in fretta. Abbiamo condiviso tutto, anche la decisione di denunciare suo padre. Sapeva che nessun processo poteva restituirgli sua madre. Ma oggi siamo ciò che ci ha insegnato lei».
In copertina Corte d’appello di Messina
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