Medici morti di Covid, zero ristori ai parenti. Parla la vedova di un camice bianco: «Mio marito ha dato la vita e lo Stato ci abbandona»
Durante la pandemia non ha lasciato i suoi pazienti nemmeno di notte. Li visitava, andava a trovarli, li chiamava per capire come stessero. A novembre 2020, Mohamad Ali Zaraket, 62 anni, si è contagiato proprio mentre soccorreva uno dei tanti suoi assistiti. Nonostante fosse sano il virus è stato più forte di lui e lo ha ucciso. A raccontare una delle storie tragiche di chi ha combattuto in prima linea fin dai primissimi mesi di emergenza è la moglie del dottor Zaraket, Maria Angelina Caputo. «La sua era una vita al servizio degli altri, una vera e propria missione. Per me ora è un dolore continuo ma nello stesso tempo sono orgogliosa di lui, ne vado fiera». Un dolore diventato ancora più amaro dopo la giornata di ieri, 11 febbraio, quando il Senato ha bocciato l’emendamento sui ristori alle famiglie dei medici morti per Covid.
«Ritengo sia gravissimo abbandonare le persone che si trovano in una situazione drammatica, che oltre ad aver perso la persona cara non hanno più neanche il sostegno morale ed economico. Chiudere le porte a una famiglia che ha subito questo dolore mi pare proprio un eccesso di insensibilità», commenta Caputo a Il Messaggero. «La morte di mio marito ci ha lasciato nella più cupa disperazione. Ho tre figli, la vita non è facile, e quindi credo non sia neanche giusto essere ignorati così. Mio marito sapeva che c’era un grosso pericolo, ma non si è tirato indietro perché faceva il medico per passione».
«Ricordo ancora quando si contagiò. Non sapevamo come curarlo»
La moglie del dottor Zaraket ricorda l’esatto momento in cui scoprì del contagio dei suo marito. «Ero con lui quando si è infettato, a novembre del 2020. Stava lavorando nel suo studio medico, quando quasi a fine giornata è arrivato un paziente, febbricitante. Stavamo tutti molto attenti. Quando è entrato quel paziente aveva la tosse. Sono andata subito a prendere una mascherina di plexiglass, per maggiore protezione», racconta. «Ricordo che all’epoca non ci hanno mai fornito dispositivi di sicurezza. Abbiamo sempre comprato tutto. Mentre lo visitava, tremavo dalla paura, si vedeva che era un caso difficile. Dicevo a mio marito: “Stai attento”. E lui mi ha risposto: “Ma cosa devo fare, io non posso lasciarlo così”. Lo ha visitato, gli ha somministrato del cortisone e poi abbiamo chiamato l’ambulanza». Da lì la strada verso il decesso. «Anche mio marito cominciò a stare malissimo. Allora non si sapeva neanche come curarlo. È stato un incubo. È rimasto una giornata intera in un corridoio di un pronto soccorso. Una tragedia nella tragedia. Poi l’hanno ricoverato, ma noi non l’abbiamo più visto. Gli hanno messo il casco fino a che il 2 dicembre è morto. Mio marito aveva 62 anni e non aveva nessuna malattia pregressa».
Dagli applausi al dimenticatoio
Sembrano ormai lontani i tempi in cui dai balconi di una popolazione in lockdown risuonavano lunghi applausi per «gli eroi dei tempi moderni». I medici in prima linea nelle corsie degli ospedali, quelli di famiglia chiamati a soccorrere a domicilio condizioni cliniche spesso drammatiche, sono stati per mesi celebrati come gli angeli salvatori di un Paese in pericolo. Ma ora che la normalità comincia a vedersi in fondo al tunnel, anche la memoria a breve termine del governo sembra fare cilecca. Il Senato ha ufficialmente bocciato il provvedimento per i ristori alle famiglie dei medici morti per Covid-19. Sono 369 i camici bianchi che hanno perso la vita durante l’emergenza sanitaria, vittime di una malattia che cercavano di combattere per senso del dovere e professionalità. A cominciare una delle stragi più simboliche della pandemia in Italia fu Roberto Stella, presidente dell’Ordine dei medici di Varese e deceduto sul campo contagiato dal virus. Era l’11 marzo 2020. Il Paese era entrato da pochissimi giorni nel primo grande periodo di lockdown con paura e disorientamento. Ma tutto questo per il governo sembra essere un lontano ricordo.
«Siamo passati dagli applausi all’oblio», ha subito commentato Alberto Oliveti, presidente dell’Enpam, la Cassa previdenziale per i camici bianchi. Ancora più delusione nelle parole del presidente della Federazione ordini dei medici Filippo Anelli: «La mancata approvazione del subemendamento presentato dalla senatrice Maria Cristina Cantù è un’occasione persa. L’occasione di dimostrare gratitudine ai medici che hanno dato la loro vita per continuare a curare durante la pandemia. Dispiace che non si siano trovati i fondi per poter dare un ristoro a queste famiglie che, in molti casi, sono anche rimaste prive dell’unica fonte di sostentamento. Invitiamo il Parlamento a una riflessione».
«Non è solo questione di gratitudine»
La proposta della leghista Cantù prevedeva la creazione di un fondo e un contributo di 100 mila euro a famiglia. Ma il subemendamento sui ristori è stato bocciato dal Senato durante la conversione in legge del decreto 221/21 sulla proroga dello stato d’emergenza. «I medici che hanno perso la vita soprattutto nelle prime fasi della pandemia hanno combattuto a mani nude contro il virus», ricorda Anelli, «in un contesto in cui mancavano mascherine, guanti, i più elementari dispositivi di protezione, lo hanno fatto per i loro pazienti, per il loro Paese. È giusto che ora il Paese riconosca il loro sacrificio, il sacrificio delle loro famiglie e provveda a quanti sono rimasti a ricordarli, sopportando, oltre al dolore della perdita, situazioni economiche anche drammatiche». E non è solo questione di gratitudine.
«In molti casi i nuclei familiari interessati erano monoreddito e adesso si trovano in difficoltà», spiega Anelli, «senza contare che oltre la metà dei camici bianchi deceduti erano medici di base o comunque non dipendenti dal Sistema sanitario nazionale, questo vuol dire che le loro famiglie non sono indennizzabili dall’Inail, mentre le famiglie dei medici dipendenti dal Ssn potrebbero sì ricevere un ristoro Inail ma a fronte di procedure molto complesse». Alla luce della bocciatura da parte del Senato, l’intenzione dell’Ordine nazionale dei medici è quella di porre la questione al ministro della Salute Roberto Speranza e ai presidenti delle commissioni Sanità e Affari Sociali, «affinché», spiega Anelli, «l’emendamento bocciato venga riproposto in un altro contesto. Garantire un ristoro a queste famiglie è un segno di rispetto».
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