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Condannati come scafisti ma facevano i calciatori in Libia. E ora puntano a riaprire il processo per la Strage di Ferragosto

20 Febbraio 2022 - 16:40 Angela Gennaro
Sono in carcere da più di sei anni, accusati di traffico di esseri umani e di omicidio per la morte di 49 persone, asfissiate nella stiva del barchino soccorso dalla Marina militare italiana nel 2015. Ma le indagini, e le sentenze, sono «contraddittorie e ingiuste», dicono i loro legali

In Libia «sono famosi quasi come Francesco Totti lo è in Italia». Per la giustizia italiana, invece, sono scafisti, trafficanti e assassini. Loro, giovani promesse del calcio nel loro paese, partiti per l’Europa per coronare un sogno, scontano ora una pena di 30 anni in carcere (uno a Caltagirone, in Sicilia, uno a Volterra e un altro a Siracusa) per traffico di essere umani e omicidio doloso: condannati per la cosiddetta Strage di Ferragosto che nell’estate del 2015 portò alla morte di 49 persone su un barchino alla deriva nel Mediterraneo centrale partito dalla Libia. Una delle ormai infinite tragedie del mare di questi anni, raccontata anche nel film documentario Fuocoammare di Gianfranco Rosi.

Abd Arahman Abd Al -Monsiff, Tarek Jamaa Laamami, Alla Hamad Abdelkarim, i tre calciatori libici fermati nel 2015 e ormai in carcere da sei anni, si sono sempre dichiarati innocenti. Ora, però, hanno deciso di chiedere la revisione del processo in Italia: «Siamo alla ricerca dei testimoni di quella tragedia, anzi lanciamo un appello a chiunque voglia parlare e raccontare davvero quello che è successo», dice l’avvocata di uno di loro, Cinzia Pecoraro. «Fin dal primo incontro in carcere con loro ho capito senza ombra di dubbio che questi ragazzi si sono ritrovati in un girone dell’inferno giudiziario di cui non hanno alcuna responsabilità», racconta Claudia Gazzini, Senior Analyst per la Libia dell’International Crisis Group. «Sono stati condannati perché si cercavano dei colpevoli a tutti i costi. Ma questi ragazzi non sono scafisti, e non sono assassini».

Un fermo immagine tratto da ‘Fuocoammare’ (2016)

Gli amici di Bengasi

Sono tornati al centro delle cronache a settembre del 2020, quando il generale Haftar li reclamava per un ipotetico scambio per la liberazione dei 18 pescatori di Mazara del Vallo sequestrati a Bengasi e poi liberati, dopo 108 giorni di prigionia e una sola telefonata ai famigliari. Conosciuti come i «ragazzi» o gli «amici di Bengasi», nel 2015 Abd Arahman Abd Al -Monsiff, Tarek Jamaa Laamami, Alla Hamad Abdelkarim hanno tra i 18 e i 20 anni. Alla Hamad studia matematica, fisica, inglese, arabo, disegno tecnico, meccanica delle costruzioni: è iscritto all’Università di Bengasi, a Ingegneria. In Libia c’è la guerra civile, da anni. «A Bengasi i ragazzi provengono da un quartiere dove nel 2015 c’è l’artiglieria pesante davanti casa, la stagione calcistica è ferma e anche l’università è teatro di guerriglia», racconta Gazzini. E allora gli «amici di Bengasi» decidono di partire: verso l’Europa – come aveva fatto da poco un loro amico, attraversando il Mediterraneo, arrivando sano e salvo in Italia e raggiungendo in pochi giorni la Germania – per giocare a calcio. Sognano di diventare come Claudio Gentile, campione del mondo con la nazionale italiana nel 1982, nato in Libia e lì cresciuto fino a otto anni, quando la famiglia decide di andare via prima delle persecuzioni degli italiani del regime di Muammar Gheddafi. Uno che ha imparato a giocare a calcio tra i vicoli di Tripoli, con altri figli di coloni e compagni arabi. «Botte da orbi», racconterà.

Alla Hamad Abdelkarim

Il viaggio

Per i «ragazzi di Bengasi» che sognano l’Europa, di visto non se ne parla. Uno di loro lo richiede, ma l’unica possibilità che gli viene paventata è quella di un permesso turistico di 14 giorni per Malta. Potrebbero entrare così in Europa, poi far perdere le loro tracce. Ma decidono per l’altra via, quella illegale. Quella scelta, nel 2021, da 144.440 persone che, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, hanno attraversato «senza permesso» le frontiere europee di mare e di terra. Da Bengasi vanno a Tripoli, con la scusa di andare a trovare lo zio di uno di loro e di fare shopping. Non raccontano nulla ai genitori. Uno di loro incontra una ragazza con cui ha una storia: è di Zwara, città sulla costa nord-occidentale punto di raccolta per le partenze per l’Europa. È lei a suggerire la via del mare, a metterli in contatto con dei trafficanti. Pagano 1000 dinari a testa, circa 7/800 euro. Uno di loro i soldi non li ha: se li fa prestare da uno zio, dicendo che così avrebbe acquistato un orologio per poi rivenderlo. «Sono tutti particolari confermati durante il processo attraverso l’analisi dei loro cellulari che raccontano quanto questi ragazzi non abbiano nulla a che vedere con i trafficanti», dice Claudia Gazzini. Uno di loro va prima a Zwara, a ovest di Tripoli, gli altri si presentano nella notte tra il 14 e il 15 agosto 2015 in spiaggia. Si sa che in mare si muore. Si sa che è pericoloso. «Ma sono giovani e un po’ sprovveduti. E hanno dalla loro il racconto del loro amico Rami, partito pochi giorni prima per l’Europa, sbarcato in Italia e sconfinato in Germania senza troppe difficoltà. Ora fa il calciatore lì», dice ancora Gazzini.

La strage di Ferragosto

Un fermo immagine tratto da Fuocoammare (2016)

La storia del “viaggio” si delinea attraverso le ricostruzioni, le inchieste e le sentenze. È la notte del 14 agosto 2015. Gli scafisti dalla spiaggia li piazzano su dei gommoni e con quelli li trasbordano in mare, su una barca di legno blu già stracarica di umanità di 12 metri. I motori sono accesi. Nella stiva – ma il dramma si capirà solo dopo – ci sono un numero indefinito di persone, provenienti soprattutto dall’Africa subsahariana: 6 metri per 4 di spazio, 1,20 metri di altezza. 49 di loro moriranno soffocati e per aver respirato il monossido di carbonio emesso dai motori del natante.

I ragazzi di Bengasi, libici come i trafficanti che dopo averli trasportati a bordo se ne ritornano a terra, restano sopra coperta. «Non ci eravamo accorti di nulla. Essendo libici ci hanno trattato con riguardo, come dei privilegiati sulla barca», racconta durante il processo di appello a Catania Abd al-Monssif. Spesso, in queste traversate, si fa così, spiega Gazzini. Gli uomini arabi (su quel barchino c’erano libici e marocchini) restano sopra coperta. I “neri” vengono messi sotto: «Perché c’è la convinzione che resistano di più. E anche perché c’è del razzismo, visto che sotto coperta vengono sistemate anche altre persone, in questo caso dal Bangladesh», dice l’esperta di Libia. Posti di viaggio che a volte, come in questo caso, fanno la differenza.

Il viaggio dura una manciata di ore, e il mare è calmo. Uno dei tre ragazzi di Bengasi racconta di essere stato male e di aver vomitato per tutta la traversata. Si scattano un selfie poco prima dell’arrivo dei soccorsi: e lui ha la classica faccia da mal di mare, un colorito malaticcio. I cadaveri nella stiva vengono scoperti quando l’imbarcazione in difficoltà viene soccorsa dalla Marina militare italiana a 135 miglia a sud di Lampedusa. Ma la Cigala Fulgosi non ha a bordo spazio sufficiente per i cadaveri e allora il comandante di fregata Massimo Tozzi chiede aiuto a un’altra nave dell’agenzia di frontiera dell’Unione Europea Frontex, il rimorchiatore norvegese Siem Pilot, dove vengono trasferiti i corpi e parte dei superstiti. 313 migranti e 49 cadaveri vengono fatti sbarcare a Catania nelle ore successive. «Non sarà l’ultima tragedia se non si risolve il problema della Libia», erano state le parole dell’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano.

OPEN | In primo piano Abd Arahman, a destra Alla, che ha raccontato di aver vomitato e dormito durante tutta la traversata, al momento del salvataggio da parte della nave Cigala Fulgosi

Le indagini

Partono le indagini. Gli agenti salgono già a bordo a raccogliere testimonianze: d’altro canto è l’era del “manuale per le indagini in alto mare”, una tecnica che prende piede dal 2013 e ora adottata dalle missioni di pattugliamento dell’Unione, quindi Eunavfor Med e Themis – coordinata da Frontex, l’Agenzia europea per il pattugliamento delle frontiere, insieme all’Italia, smontata da un’inchiesta giornalistica di Irpi, Investigative reporting project Italy. L’intera indagine, che porta all’arresto e alla condanna definitiva dei ragazzi di Bengasi insieme al connazionale Mohannad Jarkess e al marocchino Isham Beddat, secondo i team legali è frettolosa e superficiale. «Sono state sentite solo 9 persone, tra l’altro traumatizzate dall’accaduto, cui sono state mostrate solo fotografie. Peccato che in quei momenti ci siano state vedove così scioccate da non essere in grado nemmeno di riconoscere i mariti appena morti», dicono i legali. Dai racconti emerge che i tre avrebbero fatto parte di un presunto equipaggio di scafisti. Che rimandavano indietro a calci e cinghiate le persone che provavano a uscire dalla stiva in cui stavano morendo. Che le picchiavano con delle bottiglie. Che davano indicazioni alle persone a bordo su come posizionarsi. Tutte accuse rigettate dai ragazzi: uno stava male, vomitava e dormiva. Gli altri al massimo avevano passato di mano in mano una bottiglietta d’acqua. Erano posizionati, dicono, sul motore: non hanno sentito le urla di disperazione di chi stava morendo pochi metri sotto di loro, coperte dal rumore. «Anche la modalità dell’incidente probatorio è criticabile. Non ci sono stati confronti diretti, ci sono stati riconoscimenti fatti solo attraverso un album fotografico in bianco e nero e in cui c’erano i sopravvissuti di due eventi SAR (ricerca e soccorso: una delle navi militari infatti aveva a bordo i sopravvissuti di un altro barchino, ndr). Le difese non hanno potuto controinterrogare». I ragazzi «sentivano richieste di acqua provenire da sotto la coperta, e raccontano di aver visto due marocchini (non tra gli imputati) dare pugni a un uomo che cercava di salire su da sotto coperta. Niente altro», racconta Claudia Gazzini.

ANSA/ORIETTA SCARDINO | L’arrivo nel porto di Catania della nave norvegese Siem Pilot al servizio di Frontex con a bordo i migranti soccorsi dal pattugliatore Cigala Fulgosi della Marina Militare e le 49 vittime della tragedia del mare avvenuta al largo della Libia, 17 agosto 2015. Nel container frigo ci sono le 49 salme.

Per Cinzia Pecoraro, avvocata di Alla Hamad Abdelkarim, è il caso «della grande fretta». Era un «barcone di 12 metri, con gente accatastata una sull’altra. Ma che tipo di equipaggio ci può mai essere?», continua a ripetere. «C’è solo uno che guida». E a guidare era il tunisino Mohamed Ali Chouchane, 24 anni: che sceglie il rito abbreviato insieme al libico 19enne Mohamed Assayd, e al marocchino Mustapha Saaid, 24enne. Chouchane viene condannato a 20 anni di carcere con l’accusa di essere il comandante: nelle sue testimonianze messe nero su bianco anche nella sentenza di condanna definitiva, ha sempre raccontato di aver guidato da solo e di non avere avuto alcun equipaggio. Lui stesso sarebbe uno a cui è stato messo in mano il timone, perché su queste barche qualcuno che guida ci deve pur essere. Non un trafficante.

Un fermo immagine tratto da ‘Fuocoammare’ (2016)

Le sentenze

Nel 2017 viene emessa la sentenza di primo grado dalla Corte di Assise di Catania, con processo di rito ordinario e condanna a 30 anni di carcere per i ragazzi di Bengasi. Il 23 luglio 2020 la Corte di Assise di Appello di Catania conferma la condanna parlando di «assoluto spregio della vita umana»: per i giudici c’è stata «una volontà omicidiaria» perché «avevano previsto e accettato, come possibile conseguenza della loro condotta, la morte» delle persone sotto coperta «per asfissia, in un luogo con esalazione di gas, senza areazione e con l’impossibilità di uscire dalla stiva, ove venivano ricacciati a botte». Il 2 luglio 2021 la Corte di Cassazione conferma la condanna a 30 anni di carcere nei confronti di Abd Arahman Abd Al Monsiff, Tarek Jomaa Laamami e Alla F. Hamad Abdelkarim, e di Isham Beddat e Mohannad Jarkess (Mohaned Khashiba).

Un fermo immagine tratto da ‘Fuocoammare’ (2016)

Dal carcere alla riapertura del processo

Un fermo immagine tratto da ‘Fuocoammare’ (2016)

Alla, oggi 27enne, partecipa a corsi di fotografia nel carcere di Caltagirone. Continua a studiare. E a proclamarsi innocente. Come i suoi amici di viaggio. Anche loro studiano, uno ha fatto un corso di cucina. «Io e i miei amici non vogliamo essere paragonati a nessuno perché non abbiamo guidato nessuna barca», scrive Alla in una lettera dal carcere rilanciata da una campagna di Borderline Europe. «Ho visto tanti altri ragazzi stranieri innocenti che hanno subito ingiustizie per colpa di qualche mancanza di professionalità e casi in cui per chiudere un’indagine sono stati presi i primi che passavano». Per il loro caso «sosteniamo che c’è un difetto di giurisdizione: non doveva essere quella italiana a giudicarli, giacché i fatti sono avvenuti nella zona SAR (ricerca e soccorso) libica», dice a Open l’avvocata Cinzia Pecoraro parlando dell’intenzione di ricorrere alla Corte europea dei diritti umani. Ora sta lavorando a raccogliere nuove prove per far riaprire il processo in Italia. «La modalità di realizzazione dei riconoscimenti fotografici, cardine su cui si basano le accuse e le sentenze di condanna, costituisce una violazione gravissima. Facciamo appello a eventuali testimoni di quelle ore, persone a bordo del barchino, a farsi avanti e parlare», dice la legale. «Temiamo si sia trattato di un errore giudiziario», conferma l’esperta della Libia Claudia Gazzini. «Le dichiarazioni dei testimoni non collimano l’un l’altro, sui telefoni cellulari non sono stati trovati contatti con gli scafisti». 

In Libia

Un fermo immagine tratto da ‘Fuocoammare’ (2016)

Nel 2016 dalla Libia chiedono a Claudia Gazzini di trovare notizie dei ragazzi di Bengasi. La madre di uno dei ragazzi vuole aiuto per rintracciare il figlio di cui non sa più nulla: sa solo che è arrivato in Italia e che qui è stato arrestato. Non si dà pace, né si danno pace le altre famiglie. I ragazzi racconteranno poi a Gazzini di non avere i soldi dal carcere per chiamare a casa: il blackout dura da qualche mese. «Noi siamo stati accusati e condannati a 30 anni solo perché siamo libici», scrive ancora Alla nella sua lettera. «Quando mi hanno arrestato non mi hanno chiamato con il numero che avevo sul braccio o con una foto ma la polizia mi ha solo chiesto “sei libico?” e io ho risposto “si”. A quel punto mi hanno detto di andare con loro. Io vengo da un paese dove la guerra fa da padrona e questi per una bottiglia d’acqua, che non è stata neanche data, mi hanno condannato a 30 anni».

Borderline Europe

«La maggioranza delle persone arrestate e detenute in Italia e in Grecia, accusate di essere “scafisti” e di aver “favorito l’immigrazione clandestina”» lo è in base – si legge nell’appello di Borderline Europe – a «una legislazione che considera “trafficante” qualsiasi persona che ha svolto un “ruolo attivo” durante la traversata». Quindi «dal tenere il timone e guidare la barca, al distribuire acqua o tappare una perdita, con accuse che vanno dal semplice traffico alla cospirazione criminale transnazionale e», come nel caso della strage di Ferragosto, con 49 persone morte asfissiate nella stiva, «anche omicidio». Gli arresti «sono arbitrari, costruiti su indagini affrettate e interrogatori forzati. In mare, i testimoni vengono interrogati dalla polizia poche ore dopo il salvataggio, di solito ancora in stato di shock per essere sopravvissuti ad un naufragio. Spesso ai migranti viene promesso un permesso di soggiorno in cambio della loro collaborazione».

La storia dei ragazzi di Bengasi ha una certa risonanza in Libia, soprattutto nel 2020 quando il generale Khalifa Belqasim Haftar chiede la loro liberazione in cambio di quella dei pescatori di Mazara del Vallo. Nel paese i famigliari organizzano manifestazioni per chiedere all’Italia di farli tornate in Libia. «Come Joma, Ali, Abdelrahman e Mohannad, le persone considerate come gli “scafisti criminali”, sono per lo più migranti che si sono pagati da soli il viaggio in mare. I veri trafficanti restano in Libia». E «le autorità italiane lo sanno fin troppo bene. Tuttavia, è la vittoria interna che conta. In questo modo, le autorità presentano le persone in fuga da povertà e violenza, con risorse limitate per difendersi in tribunale, come “colpevoli” e distolgono l’attenzione dalla propria responsabilità per le morti nel Mediterraneo», dice ancora Borderline Europe.

Borderline Europe

«Ho un sogno: un giorno vorrei un confronto con tutti i giudici che mi hanno condannato per sapere il perché e su quali basi hanno preso questa stupida decisione. L’ingiustizia che abbiamo subito è una vergogna che va oltre la condanna, perché mostra l’incapacità dei magistrati che hanno seguito il caso. Solo 1 testimone su 9 mi ha accusato», scrive ancora Alla nelle sue lettere. «Sto soffrendo molto in carcere, sono vittima di un’ingiustizia. La giustizia italiana ha posto fine alla mia vita. Ho perso tutto. Ho perso le mie ambizioni e il mio futuro», scrive in un’altra lettera Muhannad aka Maradona. «“Maradona” è il mio soprannome. Le persone qui in carcere mi chiamano Maradona perché so giocare bene a calcio ;-)».

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