«Washington ha fallito»: le voci degli ucraini d’America, separati dalle famiglie e delusi dalla politica Usa
NEW YORK – In punta di piedi sullo sgabello, Vitalii aggancia alla vetrina l’ultimo lembo della bandiera ucraina. Un fascio di luce si allunga sulla sala del Veselka, piena di clienti ma avvolta in un silenzio surreale. Una signora sulla sessantina sfoglia il giornale, spiluccando controvoglia il suo holubtsi. All’esterno del ristorante, tra Second Avenue e Ninth Street, un gruppo di ragazzi attende in coda con lo sguardo fisso sui cellulari. «Sapevamo che sarebbe successo, prima o poi. Lo sapevamo tutti, qui», dice Vitalii togliendosi il grembiule, e abbracciando l’isolato tappezzato di bandiere giallo-blu. «Era chiaro che Putin non si sarebbe accontentato della Crimea, e che si sarebbe spinto oltre. Non sapevamo fino a dove, ma il vero problema è che non è stato fatto abbastanza per fermarlo, neanche dagli Stati Uniti».
Vitalii 30 anni, lavora come cameriere a New York, nel cuore dell’Ukrainian Village, o Little Ukraine, nella zona Est di Manhattan. Il quartiere ospita, assieme a Brighton Beach, gran parte dei circa 150 mila cittadini ucraini che attualmente risiedono nella città, la comunità più numerosa in tutti gli Stati Uniti. I primi cercarono riparo a New York durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, altri arrivarono tra gli anni ’70 e ’80. «Io sono negli Stati Uniti da 10 anni», dice Vitalii, «ma a Kiev c’è il mio cuore, la mia famiglia». Nella capitale ucraina, ora sotto assedio delle truppe russe, Vitalii ha lasciato i genitori e la nonna. L’ultima volta che è stato a Kiev, a fine gennaio, ha provato a convincerli a seguirlo negli Stati Uniti: «Mi hanno risposto che, finché l’Ucraina non verrà cancellata dalle mappe, non se ne andranno. Quella è casa loro, mi hanno detto. Ma loro sono tutto quello che ho».
Con l’esercito russo ormai alle porte della capitale, Vitalii non sa se riuscirà a tornare: «Non mi interessa combattere, non sarei d’aiuto in alcun modo. Vorrei soltanto stare accanto ai miei genitori. Non posso lasciarli soli, non in un momento come questo», sussurra con la voce rotta. Uno sguardo al cellulare, un altro alla bandiera appesa alla vetrina del ristorante. «Il mio Paese rischia di scomparire e la politica cosa ha fatto? Sì, gli Stati Uniti hanno approvato un pacchetto di sanzioni, ma è troppo poco e troppo tardi». A pochi passi dal Veselka, fuori dalla St. George Ukrainian Catholic Church, fulcro della comunità cattolica del quartiere, un gruppo di persone parla animatamente. Una ragazza osserva attraverso una vetrina il discorso con cui, poche ore prima, il presidente statunitense Joe Biden ha annunciato le sanzioni contro Mosca.
«Come si può pensare che sia abbastanza? Putin vuole uccidere i nostri figli, i nostri genitori, i nostri amici, e questo è tutto quello che riusciamo a fare?», dice. Svetlana ha 22 anni. Tra le mani stringe una foto della sua famiglia. Ha perso la madre quando era bambina. Il padre e i due fratelli più piccoli vivono a Mykolaiv, città di 500 mila abitanti a Est di Odessa. «Sono appena stata alla chiesa di St. George a pregare, è la prima volta che lo faccio, ma non mi è rimasto nient’altro a cui aggrapparmi. Dove la politica non è arrivata, spero che possa arrivare la fede». «La politica statunitense si è mossa troppo lentamente», rincara Andrij Dobriansky, portavoce dello Ukrainian Congress Committee of America (Ucca), organizzazione che rappresenta gli interessi dei cittadini ucraini negli Stati Uniti e che ha sede nel cuore dell’Ukrainian Village.
Nel 2014, durante le prime settimane del conflitto nel Donbass, lo Ukrainian Congress Committee of America si occupò di mandare al fronte forniture mediche ed equipaggiamento per i soldati ucraini, e di garantire cure negli Stati Uniti ai feriti di guerra. Da tempo, dice Dobriansky, «chiediamo ai membri del Congresso un piano di lungo periodo per tutelare l’Ucraina, e permetterle di difendersi in caso di aggressione». Sforzi che, però, sono rimasti impigliati più volte nelle maglie della trattativa politica tra Democratici e Repubblicani. «Serve un Lend-Lease Program sul modello di quello messo in campo durante la Seconda Guerra Mondiale», dice Dobriansky. Il riferimento è alla legge firmata nel 1941 dall’allora presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, che permise a Washington – ancora non coinvolta direttamente nel conflitto – di fornire armamenti militari agli alleati e a tutti quei Paesi che fossero «vitali per la sicurezza» degli Stati Uniti.
«C’è una legge che prevede un Lend-Lease Program per l’Ucraina, e per l’Est Europa in generale, ma è stata frenata dai negoziati tra Democratici e Repubblicani», dice Dobriansky. Il testo è stato anche al centro dell’incontro tra il segretario di Stato Antony Blinken e il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, tenutosi il 22 febbraio scorso, due giorni prima dell’invasione russa. Se la legge fosse stata approvata in tempo, dice Dobriansky, avrebbe permesso agli Stati Uniti di «fornire all’Ucraina le risorse necessarie per schierare un arsenale militare all’altezza anche in città meno presidiate come Odessa o Mariupol». «È triste vedere come una legge così importante si sia arenata al Congresso», conclude Dobriansky. «Siamo davanti a un disastro. Un Paese intero rischia di essere cancellato dalle mappe. E con Putin che potrebbe rimanere al potere fino al 2036, altri Stati nell’Est Europa potrebbero finire nel mirino di Mosca. Il Congresso non può più tirarsi indietro».
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