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Energia, la corsa per evitare la crisi. Ue: riserve all’80% entro settembre 2022. Gli esperti: «Il no alle trivelle? Regalo a Putin»

07 Marzo 2022 - 09:20 Redazione
Dopo più di dieci giorni di conflitto Russia-Ucraina, uno dei rischi collaterali a cui prepararsi è il "ricatto energetico" di Mosca. L'ex manager di Lukoi: «I russi non chiuderanno i rubinetti»

Dopo più di dieci giorni di conflitto Russia-Ucraina, uno dei rischi collaterali più urgenti da arginare per i Paesi Ue è quella di una profonda crisi energetica. Oltre a sanzioni, tentativi diplomatici e politica migratoria, la strategia per evitare un possibile “ricatto energetico” di Mosca dovrà necessariamente cercare su un fronte comune tra gli Stati membri. È per questo che nei giorni scorsi la presidente di Commissione Ue Ursula von der Leyen ha convocato il presidente spagnolo Pedro Sanchez e il cancelliere tedesco Olaf Scholz. Oggi, 7 marzo, sarà invece il turno di Mario Draghi, che insieme al ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, voleranno a Bruxelles per un incontro faccia a faccia con la presidente. Anche in questo caso è stata von der Leyen a chiedere un appuntamento con l’obiettivo di garantire il fronte compatto di cui ora l’Occidente ha bisogno.

Migranti, sanzioni ed emergenza energetica saranno i temi principali da affrontare. Sull’ultimo dei tre punti l’Italia, la più dipendente fra le grandi nazioni europee dal gas russo, cerca ora di attrezzarsi per la possibile crisi. Se Mosca decidesse di interrompere il flusso dei suoi gasdotti, il piano del governo punterebbe al ritorno a pieno ritmo delle centrali di carbone insieme al raddoppio di fornitura da altri Paesi, in primis Qatar e Algeria. Per queste ragioni nella giornata di ieri il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio è volato a Doha per cercare garanzie dall’emirato sulle forniture di gas liquido.

Ma se è vero che nessuno si salva da solo, il governo italiano dovrà mostrare piena collaborazione al piano che i vertici europei stanno mettendo in piedi in queste ore. L’Energy Compact è il progetto che l’esecutivo Ue ha pensato per far fronte alla possibile crisi energetica con lo scopo ultimo di rendere l’Europa più autonoma dal gas russo e in tempi più brevi possibili. Tra i provvedimenti presenti nella bozza del documento che verrà presentato in maniera ufficiale l’8 marzo anche l’obbligo di avere le riserve piene almeno all‘80% entro settembre 2022 e nuovi schemi per agevolare acquisti e stoccaggi comuni. I prossimi giovedi e venerdi 10 e 11 marzo i laeder degli Stati membri si riuniranno a Versailles per discutere anche sul tema dei rincari e su come proteggere i cittadini dall’ulteriore vertiginoso aumento delle bollette.

A questo proposito ci sarebbe sul tavolo una specie di cassa integrazione all’Ue, utilizzata anche nei primi mesi di pandemia, con l’emissione di nuovo debito comune per finanziare un fondo di prestiti agevolati che possano contrastare il caro energia attraverso i sussidi. L’idea avanzata da alcuni Paesi, con la Grecia apripista, non incontrerebbe però l’unanimità degli Stati membri, soprattutto di quelli Nord europei. Se l’ipotesi non garantirà un fronte comune, l’alternativa sarà a quel punto quella di concedere ampi margini ai singoli governi: potranno mettere a punto le misure di sostegno ai settori produttivi più colpiti, in particolare quelli ad alto consumo energetico.

Perché l’Italia è così dipendente da Mosca?

«Quello dell’energia non è più soltanto un tema ambientale ma anche politico». A riflettere sui grandi effetti collaterali della guerra innescata da Mosca è l’ex manager di Lukoil, la più grande compagnia petrolifera russa e una delle principali al mondo, e attuale presidente di Centrex Italia, Massimo Nicolazzi. «Lukoil ha chiesto la cessazione del conflitto. Questo vuol dire che sta facendo i conti, come tutte le società russe in questo momento», spiega a La Stampa. «Le sanzioni li stanno sicuramente mettendo in difficoltà. In che misura questo possa influire sulle decisioni politiche non possiamo saperlo, conosciamo invece i riflessi sul mercato, visto che l’Ural, il greggio che arriva dalla Russia, è stato offerto con uno sconto del 18%».

Si naviga a vista con prezzi che continuano a salire: «Un anno fa compravi il gas a 20 euro per un megawattora, siamo arrivati a sfiorare i 220 euro, coi future a 203 euro. Ricordando che il prezzo del mercato di oggi trascina quello di dopodomani, è presumibile che una diminuzione sensibile del prezzo ci potrà essere soltanto a partire da aprile 2023», continua Nicolazzi. Il punto fondamentale per l’Italia ora è la grossa dipendenza dall’energia di Mosca. «Nel 1980 l’Italia produceva 18 miliardi di metri cubi di gas all’anno e ne consumava 40. 22 arrivavano dall’export. Oggi la produzione nazionale è precipitata a 3 miliardi di metri cubi contro 70 miliardi di consumi. A furia di dismettere ci troviamo in braghe di tela».

Una produzione interna del tutto insufficiente che la riserva di gas dell’Adriatico, tuttora indicata dal governo come possibile panacea della crisi, non potrà, secondo l’esperto, risolvere davvero le cose. «Dall’Adriatico potremo ricavare al massimo altri 3 miliardi di metri cubi l’anno», spiega, «che coi prezzi di oggi non sono poca cosa, ma sono solo una piccola percentuale del fabbisogno».

Una delle soluzioni del piano Draghi è anche quella di potenziare le forniture da altri Paesi. Una strada ritenuta anche da Nicolazzi più efficace delle altre proposte: «Dall’Algeria portiamo già a casa parecchio e col mese di febbraio è diventato il nostro primo fornitore. Se si riuscisse ad attivare tutta la capacità di Algeria e Libia avremmo certamente una bella boccata d’ossigeno, ma bisogna ricordare anche la situazione attuale della Libia, non tranquillissima. L’Azerbaigian potrebbe raddoppiare le forniture perché non c’è bisogno di nuove linee ma soltanto di stazioni di compressione. Si parla anche di una nuova linea dalla zona di Cipro, ma qui i tempi saranno lunghi. Naturalmente bisogna puntare al massimo anche sulle rinnovabili, ma anche qui i tempi non sono brevi e le quote che se ne ricavano ancora molto basse», conclude.

Ma quanto è probabile la crisi energetica che l’occidente prova ad evitare? «La decisione politica di chiudere il rubinetto è soltanto nostra», chiarisce Nicolazzi, «i russi sicuramente non lo faranno. E non è una decisione semplice, perché bisogna ricordare che un eventuale fallimento dell’economia russa coinvolgerebbe anche noi e ci impoverirebbe, vista l’importanza della quota di export verso Mosca». La decisione allora appare più complicata che mai. «Quello che è certo», conclude l’esperto, «è che d’ora in poi ogni no dato alle trivelle, alle pale, ai processi per ricavare energia sarà un regalo al signor Putin».

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