Figliuolo si libera di 218 milioni di mascherine di comunità comprate da Arcuri. Finiscono al macero perché «mai chieste da nessuno»
Ci sarebbe un «accumulo ingente» di mascherine che non hanno la certificazione Ce e di altri materiali per l’emergenza Covid che risalgono al primo periodo della pandemia di Coronavirus nel 2020, non più impiegabili. E ora, questa la notizia, la struttura del Commissario per l’Emergenza Covid, Francesco Figliuolo – che in questi giorni ha annunciato che il 31 marzo «passerà la mano» – ha cominciato a predisporre la vendita o dato disposizioni per manifestazioni di interesse sull’«accumulo» in questione. Il materiale – si legge sulla determina del Commissario – occupa un volume complessivo di 40mila metri cubi nei magazzini, e per lo stoccaggio viene sostenuto un onere di oltre un milione di euro al mese. L’acquisto risale ai tempi dell’inizio dell’emergenza sanitaria e del governo guidato da Giuseppe Conte, che aveva scelto Domenico Arcuri, da 13 anni amministratore delegato di Invitalia, come commissario prima del generale Figliuolo. Non solo: la struttura commissariale fa sapere che sta per mandare al macero circa 218 milioni di mascherine inutilizzabili, che verranno distrutte su richiesta del dipartimento guidato dal generale Francesco Figliuolo. L’operazione costerà 698 mila euro e se ne occuperà un’azienda specializzata di rifiuti, la A2A, in base ad apposito bando vinto.
Le mascherine destinate al macero sono quelle note come ‘mascherine di comunità’ ed erano state comprate, anche in questo caso, dalla precedente struttura commissariale. Nella prima fase era infatti permesso utilizzarle anche se sprovviste di certificazioni e dall’efficacia inferiore rispetto alle chirurgiche. Fino a questo momento sono rimaste conservate nei magazzini della struttura per un costo di 313 mila euro al mese. «Non sono mai state richieste, né dalle regioni, né dagli altri enti convenzionati», si legge ancora nella determina. E «oggi non trovano più nessuna possibilità di impiego».
La prima ondata
Nella prima ondata di Coronavirus, lo si ricorderà, il tema delle mascherine è stato immediatamente molto caldo: non si era preparati a utilizzarle né vi erano scorte sufficienti. Il paese, dal piano pandemico in giù, era tutt’altro che preparato a gestire uno tsunami sanitario come quello portato dal Coronavirus- Una penuria che portò a prezzi inizialmente altissimi – e man mano calmierati – e a vero sciacallaggio. Arcuri, per l’approvvigionamento di questi dpi, ha firmato una serie di contratti per ampliare le forniture. La provenienza di queste mascherine, in più casi, ha visto protagoniste le produzioni cinesi. E i contratti hanno attirato attenzioni giornalistiche ma anche giudiziarie: a ottobre dello scorso anno sono state sequestrate 800 milioni di mascherine provenienti dalla Cina proprio perché «non regolari». L’inchiesta, della procura di Roma, vede indagato l’ex commissario all’emergenza Arcuri e gli imprenditori Mario Benotti, Andrea Vincenzo Tommasi ed Edisson Jorge San Andres Solis con l’accusa di peculato, abuso d’ufficio e frode nelle pubbliche forniture.
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